lunedì 21 aprile 2025

Ostia

 Com’è bella Ostia all’alba.

La luce dirada le ombre della notte dal mare e sbianca le casette del litorale, brutte, ma rese belle dalla loro semplice povertà.

Sono case modeste, per gente modesta, che è felice di avere un tetto e poco importa se la porta di casa è un’orribile e sgraziato infisso di alluminio anodizzato, un moderno pugno nell’occhio di fronte alla vetustà dei muri.

Però sono belle, come un sorriso senza qualche dente, che appare sgraziato, magari anche ridicolo, ma che è bello perché è un sorriso.

Queste casette, incastonate tra spiazzi sabbiosi a ridosso della spiaggia, si stanno ridestando alla luce di questo sole di novembre, che illumina ma non scalda.

E sento i rumori di chi si ridesta al loro interno: qualche pentola che batte sui fornelli, qualche parola, qualche scroscio d’acqua. Presto usciranno verso la loro giornata, Verso un viaggio; in bicicletta, in motoretta o in corriera. Verso altrove, comunque, perché qui non c’è niente.

Ci sono solo io, disteso in questo spiazzo.

E, forse, qualcuno di questi viaggiatori dell’alba, vedendomi, griderà. Spezzando il silenzio che ha accompagnato la notte, che ha accompagnato il mio martirio.

Perché io sono morto.

 

Non ho pensato. Per una volta non ho pensato.

Ma ero spinto, travolto, dalla voglia di recuperare quelle immagini.

E quei ragazzi, che conoscevo e frequentavo, tante altre volte si erano dimostrati utili e comprensivi.

Dall’evitare il furto dell’auto al capire che ero fatto così, come altri tra loro, e che non c’era scandalo o ribrezzo perché, quelli sì, sono vizi costosi, che puoi mantenere solo se puoi condurre una vita senza debolezze necessarie, senza necessità di fronte alle quali la morale comune sparisce, perché non capirebbe.

Certo, ci si scherzava, ma come si scherzava sul labbro leporino di Riccio o sull’accenno di gobba di Richetto.

Questi non scherzano, non sono capaci.

TI prendono in giro, e ridono. Ma sono quelle risate ignoranti, fatte risuonare perché non hanno ben capito perché ridere, ma hanno capito che devono ridere perché anche gli altri lo fanno.

E lo fanno nei lugubri locali che frequentano, protetti dall’ombra di qualche associazione o dal simbolo di uno dei loro partiti, ma lo fanno anche nelle raffinate e sussiegose stanze delle loro case.

Cambiano i personaggi, ma la ristrettezza mentale è la stessa. In basso offensiva e ignorante, in alto sussurrata e maliziosa. Ma accomunate dalla stessa paura

Per questo hanno rubato le mie immagini.

Perché gli dava fastidio, il fastidio di dover ammettere che era vero, che di fronte alla morte tanto osannata dalla loro retorica, la certezza di vederla arrivare faceva ancora più paura, perché sarebbe stata una morte orribile e tragica.
E quindi si ubriacavano per non vederla.

Ebbri della loro stessa violenza, perché di altro non sapevano vivere.

E le mie immagini lo dicono, lo fanno vedere.

Ma è uno scandalo.

Non per loro, che capiscono solo le offese e le botte. Ma per gli altri.

Quelli che non si sporcano le mani, quelli che sono moderati. Quelli che sono “per bene”.

E tutto questo è scandaloso, schifoso; come si fa a parlare di certe cose!?!
Ma ne discutono, anzi ne fanno discutere i loro portavoce, i giornalisti dei loro giornali, gli scrittori dei loro libri, i politici dei loro partiti.

L’importante è quel “loro”, che li distanzia, tanto, dalle vite che non vorrebbero mai vivere, ma delle quali giudicare.

Per denigrarle, rabbrividirne a volte, e comunque stigmatizzarle, come negative, abiette, vittime e generatrici di violenze.

Ma sono i silenzi dei loro salotti buoni i complici delle violenze, i mandanti delle nefandezze che loro vedono, certo giudicano, ma non rifiutano, non, mai, condannano.

Quelli che, domani, leggendo della mia morte, esprimeranno un rammarico, forse, ma non confesseranno il sollievo.

 

Mi hanno massacrato, per eliminare con la rabbia violenta e cieca la loro paura, come sempre ha fatto l’uomo.

Mi hanno condannato perché ho commesso il crimine più grande, ai loro occhi e per le loro menti semplici.

Non la mia sessualità, che, credo, ha creato più tormenti a me che a loro, non la mia sfrontatezza, che il mio coraggio aveva ingigantito, no.

Ogni mia parola, ogni mio scritto, ogni immagine che ho composto per loro era la prova schiacciante della mia colpa.

Ma io volevo solo raccontare.

Le storie, di tutti di noi.

Quelle famose, quelle semplici, che sono le stesse, solo capitate in altri momenti, ad altre persone.

Le tragedie greche risolte in risse di periferia, i drammi d’amore dei principi nordici riportate in un bar del centro, tra commessi di belle speranze e signore di perdute bellezze.

 Io volevo solo raccontare.

Per dire a tutti che non era come la pensavano loro, che c’è poesia anche in un dialetto sgangherato e senza futuro nella modernità, che una prostituta può cercare una vita migliore, che un questurino può essere una vittima.

E ho fatto pensare.

Ho fatto pensare tutti, chi già conosceva i mali che ho descritto, chi li comprendeva per la prima volta, chi li usava, da tempo, per il proprio tornaconto.

Ma, soprattutto, ho fatto pensare anche loro, che odiano farlo. Perché il pensare li tormenta, rende difficili le loro basiche, semplici, logiche.
Perché contrasta la loro vera forza, che è ignoranza, delle cose ma, su tutto, ignoranza degli altri.

L’ignoranza del prossimo li rafforza nella loro cieca dottrina che tutto ciò che è contrario alla loro natura è sbagliato.

E, se non gli riesce di perseverare nell’ignorarlo, va eliminato.

Hanno dato nomi, colori e facce terribili a questa convinzione: fascismo, nazismo, nazionalismo, qualunquismo, totalitarismo.

Ma sono tutti frutti dello stesso albero, l’albero più antico che l’uomo coltiva da sempre. Fin da quando si è affacciato su un mondo di cui non conosceva nulla e che, perciò, era fatto di pericoli.

Questi cavernicoli moderni, che hanno sostituito alle clave la polvere da sparo, agli orpelli fatti con denti delle bestie ammazzate i consumi di una società che si identifica sempre più in ciò che hai piuttosto in chi sei, credono di essere riusciti ad eliminare un’altra delle loro paure.

Per non pensarci più.

Ma, dovessero anche bruciare fino all’ultimo dei miei scritti o dei miei fotogrammi, non riusciranno, come è stato per altri, tanti altri che hanno trucidato prima di me, ad eliminare la mia idea, il mio pensiero.

E il mio nome.

Qui, su questo spiazzo sabbioso vicino al mare di Ostia, giace – immobile - il mio corpo morto.

Ma non il mio nome.

Pier Paolo Pasolini.

 

martedì 19 gennaio 2021

Mozzarellone di Mare

Osvaldo Lacuale non era mai contento. 


Già il suo nome gli stava antipatico: lo trovava un nome stupido e insulso, per di più era l’unico della famiglia ad averlo, cosa che lo faceva arrabbiare anche di più. 

E poi non gli andava bene niente; a scuola non andava male, ma neanche troppo bene, perché non c’era una materia che gli piacesse, che lo appassionasse.
Se la cavava perché aveva una bella parlantina e perché, lì all’isola della Tortuga, gli insegnanti e i professori erano tutti pirati anche loro e non è che proprio fossero le matite più appuntite della scatola. 

Coi compagni e le compagne si trovava bene: era un bonaccione a cui piaceva stare in compagnia, ma anche loro notavano che Osvaldo aveva sempre qualcosa da criticare, o trovava che qualcosa era sbagliato e si sarebbe potuto migliorare. 

Insomma, un criticone. 


Quando gli amici con cui aveva più confidenza gli facevano notare questa cosa Osvaldo si giustificava: 

“Non sono mica io! È la Cegnar, qui dentro!” indicando la testa. 

E spiegava, a chi voleva capire, che dentro la sua testa risiedeva un’anziana e arcigna professoressa, che passava il tempo a criticare tutto quello che Osvaldo faceva o diceva.
Gli amici ridevano, increduli, cosa che infastidiva Osvaldo, ancora di più. 

Finite le scuole dell’obbligo (che alla Tortuga si chiamavano le scuole del “Beh, obbligo… vedi tu”, per ovvie ragioni) decise di iscriversi all’Omnicomprensivo di Capitaneria Piratesca, un istituto superiore difficilissimo e duro, in cui formavano il fior fiore della pirateria mondiale, con studenti che venivano anche dalle Barbados, dalle isole Andamane o da vicino Gallarate.  

A tutti fu subito chiaro che per Osvaldo sarebbe stata dura, non ne sarebbe uscito Capitano, ma neanche nostromo o vice sotto addetto aggiunto al fiocco, così, per prenderlo un po’ in giro, gli amici e i compagni gli avevano dato come soprannome “mozzarello”, che era anche meno di mozzo.
Siccome però Osvaldo era grande e grosso, avevano adattato il soprannome alla sua corporatura. 

E così era nato “Mozzarellone di mare”. 

Perso com’era ad ascoltare la Cegnar Mozzarellone non si curò più di tanto di quel nome e, invece, si buttò in mille avventure per dare una forma ed uno scopo alle idee che sentiva di avere, anche un po’ per sconfiggere la prof. 

Tentò di dar vita ad una moderna carrozzeria e verniciatura per navi pirata, un’idea buona sulla carta ma, come si sa, la carta quando si bagna è inutilizzabile.
Leggeva libri su ogni argomento, assorbendo conoscenze su temi quali l’origine delle lingue europee, la storia del merluzzo nell’evoluzione umana o il ruolo dei mattatoi nell’industria del fast food statunitense.
Provò a proporsi come addetto alle comunicazioni di coffa, ma nessun pirata ne sentiva il bisogno, nonostante, per Mozzarellone, il fatto di saper comunicare in modo preciso e chiaro avrebbe aiutato di molto le attività a bordo. Perché lui lo aveva capito subito, erano gli altri scemi e ignoranti! 

Il primo impiego, in età da pirata ormai fatto perché - per seguire le sue chimere - Mozzarellone aveva perso molto tempo negli studi, lo aveva avuto agli ordini del Capitan Bisboccia, uno che aveva fatto la gavetta e anche parecchi gavettoni e che aveva giudicato Mozzarellone anche meglio di come si considerasse quel fesso. 

E aveva avuto ragione, il Bisboccia, perché in poco tempo Mozzarellone aveva trasformato le critiche della Cegnar in capacità di gestione, e i suoi modi (affinati in anni di contrasti interni con la professoressa) convincevano gli altri marinai. 

In breve, si ritrovò a far carriera, prima come capo dei suoi stessi colleghi, poi sempre più su. 

Nel tentativo di dar pace a quella voce interna che lo accompagnava sempre aveva imparato a scomporre qualsiasi problema o compito in modo da poter risalire alla causa, tralasciando le conseguenze. E a coinvolgere, piuttosto che ordinare o minacciare. 

Insomma, era uno dei pochi pirati, se non l’unico, che sapeva buttar giù un piano Gantt dell’abbordaggio, e questo si vedeva, oh se si vedeva. 

Pure Mozzarellone non era contento. Al solito. 

Sì, aveva fatto il pieno di dobloni con l’attacco alla “Nuestra Senora de Guadalupe e Dintornos”, che era piena come un ovetto, aveva sconfitto in battaglia il temibile Ammiraglio O’Hissaw, dei reali Sommozzatori a Cavallo. Ma, dentro di sé, sentiva sempre quella vocina (per la verità sempre più stridula e arcigna) che non si accontentava mai.
E allora scaricava tutte le sue frustrazioni spingendo il suo equipaggio oltre ogni limite, altro che colonne d’Ercole e quel cippalippa di Ulisse!! 

Gli altri capitani!? Tutti degli imbecilli!
I comandanti delle navi spagnole, portoghesi o inglesi? Degli inetti, capaci solo a piangere quando Mozzarellone gli speronava le loro belle navi tutte lustre… 

E lui, Mozzarellone di mare, solo lui stava ritto su un’immaginaria montagna in mezzo all’oceano, brandendo la spada infuocata della verità e della sapienza!  

Solo e ammantato della sua stessa grandezza. 

Oh, di cose ne sapeva fare eh? Dal circuire i mercanti genovesi all’allietare le belle fanciulle al suono del liuto o delle sue flautate parole. ‘Ste polle che ci cascavano…
Sapeva smontare e riparare un timone Formichetti & Guidotti a doppio comando idropneumatico con solo un cacciavite spuntato e un Victorinox col cavatappi.
Oppure scrivere e declamare un commovente saluto di commiato per il vecchio Barbatrita, così bello che, all’arrembaggio d’addio del vecchio pirata, anche gli spagnoli si erano messi ad applaudire. 

Insomma, genio e sregolatezza. Anche se, per molti, il BRT che doveva consegnare il genio era fermo da anni al casello in autostrada… 

E, su tutto, questa frenesia di andare oltre, di fare cose diverse dall’ipotetico seminato, per sganciarsi e seminare quella voce saccente dentro la testa. 

Ma non c’era niente da fare. 

Non poteva neanche gustarsi il bottino sottratto ai soliti olandesi (un cofano pieno raso di diamanti e tre tonnellate di una strana erba secca che puzzava forte) che già la Cegnar incalzava “Eh! Se avessi pensato ad ottimizzare l’equipaggio, che il secondo prodiere era di troppo, adesso il bottino lo spartivate in diciannove invece che in venti! Lo hanno capito tutti! Che figura!!” 

E via così. 

E per rispondere alla Cegnar, alle sue stramaledette frecciate che rifacevano pensare tutto, Mozzarellone si eclissò sempre di più.
Se ne stava per i fatti suoi, solo a casa, tra mille oggetti accumulati nel tentativo di saperne di più, di pensare meglio. Dall’uovo di Dodo ancora fresco ad un liuto elettroacustico a sedici corde, che pizzicava con maestria, ma solo per le sue orecchie. 

Nelle rare uscite però, piazzava sempre qualche colpo da fuoriclasse, come farsi consegnare gli orecchini della Duchessa d’Angiò dopo averla convinta che irradiavano luce perché radioattivi e quindi pericolosissimi.
Oppure farsi pagare una lauta consulenza da esperto in calafataggio presso i Cantieri Navali Olivetti & Fusetti, dopo essersi letto appena appena l’articolo “I miracoli del catrame”, in un numero di Selezione dal Reader’s Digest del ’57. 

Perché saperci fare, tutto sommato, ci sapeva fare. 

Ma la Cegnar era sempre lì, a giudicare, a denigrare. 

Così, il giorno del suo funerale, nessuno tra i presenti si stupì quando, dal fondo della sala, emerse un gigantesco Capo Indiano. 

Qualcuno giurò che era un vecchio nemico di Mozzarellone, sconfitto in battaglia al largo della Cappadocia, qualcun altro riferì invece di una lunga amicizia nata in un bar di Ougadougou, quando il Capo aveva sparigliato il sette a scopa ma Mozzarellone aveva risolto tutto con una napola all’ultima mano. 

Senza dire una parola il Capo si avvicinò al feretro, ne estrasse il corpo di Mozzarellone e, messoselo in spalla, ritornò da dove era venuto. 

Giunto sulla porta si fermò, si voltò verso gli astanti e disse: “Lui viene con me, da solo.” 

E tutti capirono che, finalmente, Mozzarellone di mare non avrebbe più sentito la Cegnar. 

mercoledì 4 novembre 2020

Storia di Poste, efficienza e divinità varie

La mattinata inizia nel più rompicoglioni dei modi, e cioè con l’estrazione, dalla cassetta delle lettere, di “strisciata” postale in cui mi si informa che un cazzo di postino che pensa che il mondo giri attorno al suo culo ha pensato bene di passare a metà mattina per consegnarmi una raccomandata. Non trovandomi, in quanto stranamente accomunato a quella piccola percentuale di lavoratori che a metà mattina sono in un ufficio, ed evidentemente incapace di apprezzare la bellezza di Viale Certosa all'altezza di Musocco ha optato per non ripassare per quei luoghi e, invece, farmi rompere il cazzo a me per andare a ritirarla nel prestigioso ufficio postale di Viale Monte Ceneri. 

Dato che col cazzo che ti scrivono chi ti ha così tanto raccomandato, e nel perenne dubbio di dover dei soldi a qualche istituzione, mi reco presso il succitato ufficio, affrontando il forza 9 che spira in Monte Ceneri che, a saperlo, col cazzo che prendevo il 14 e venivo bordeggiando di bolina.

Entro condividendo la simpatica bussola a porte automatiche con due signore. Qual è mio costume cedo loro il passo e anche il tasto della macchinetta distributrice di biglietti che, alle 10 della mattina, mostra già evidenti segni di usura, stante l’ufficio ricolmo di astanti.

Evidentemente qualche importante funzionario delle Poste ha ricevuto in regalo per Natale il calendario dell’Arma (sempre apprezzato) e quindi si è accorto che, fuori dal Ministero, è il 2020. A riprova di ciò la macchinetta elargisce biglietti specifici a chi deve solo ritirare plichi (il mio caso) mediante ostensione del cazzo di codice a barre presente sull’altrettanto cazzo di “strisciata”.

Vengo ricompensato con un magnifico “020” che, stante lo sguardo atterrito delle signore incontrate in bussola, che hanno recuperato numeri a tre cifre mentre il tabellone mostra che stanno servendo il 2, mi illumina il viso essendo, proprio in quel momento, servito il numero 12 della mia particolarissima e prestigiosa fila.

Trovo pure un posto a sedere e mi godo l’alacre lavorio dell’addetta allo smistamento dei richiedenti plichi, che, indefessa, mi è già giunta al cliente 014.

E qui il dramma.

Un giovanotto dotato di giubbetto finta pelle e occhiali da sole, rigorosamente sul naso nonostante l’interno, si avvicina alla collega di fianco a quest’ultima e, adducendo missioni su Marte, smascheramento di trame terroristiche internazionali o checcazzonesoio, asserisce di aver perso la chiamata del suo numero e chiede gentilmente di essere servito lo stesso.

La stronza (e mi limito per rispetto dell’universo femminile) lo guarda con quello sguardo pieno di voglia di fare e di perenne ricerca di sfide lavorative che hanno solo i veri impiegati postali e, approfittando della felice partenza del numero 014 allo sportello di fianco dice:

“Chieda alla mia collega qui”.

E questa, preposta al mio servizio, gli dice pure: “faccia vedere.”

Io comincio a citare una litania composta dal semplice accostamento dei santi più noti con gli animali da cortile e domestici presenti sul territorio nazionale.

Ovviamente il giovanotto non deve fare una raccomandata o comprare quattro francobolli, bensì spedire ai quattro angoli del globo una serie di documenti fiscali da vidimarsi e processare a nome del nonno, defunto, e di cui è in possesso di regolare delega in sanscrito antico e passaporto emesso dall’Impero Austro Ungarico.

La stronza del ritiro plichi non batte ciglio, si toglie il maglioncino dolce vita, fa due flessioni sul pavimento per riscaldarsi e prende in mano la pratica.

Io, intanto, sono passato ai santi minori e, di converso, comincio a citare fauna africana, non più solo per semplice accostamento di nomi ma anche adducendo pratiche di scambio a carattere sessuale tra i primi e i secondi.

Il giovanotto paga il conto in Talleri di Maria Teresa, pretendendo il resto in criptovaluta da addebitarsi sul suo portale di online trading, pratica semplicissima che la monocellulare di fronte a lui esegue con immutata cortesia in soli 32 minuti.

Fatta anche questa il neurone che stava rimbalzando impazzito in quel gran spazio vuoto sito all’interno delle orecchie dell’impiegata ha un inspiegabile momento di concentrazione e riesce a far dire al suo involucro umano la frase: “Ha altro?”

L'altro, erede di generazioni e generazioni di meretrici di bassissima lega, estrae un altro plico valutabile sui 24 kg e dice. “Si ci sarebbe anche questa, è l’atto di cessione dei nostri possedimenti lunari al governo non riconosciuto della Transnistria, ha problemi se è tutto scritto in gaelico?”

La deficiente sorride, e carpisce il plico.

Prima di arrivare ai Paleocristiani e alla fauna australe inganno il tempo immaginando fantasiosi accostamenti tra i santi più recenti e animali che ne completino il ruolo nell’agiografia cristiana, Padre Pio con un picchio, Don Bosco con l’orso marsicano cui hanno appena confermato il licenziamento, Madre Teresa di Calcutta, una vacca sacra e un toro che ha perso i bifocali.

Dopo un’ora e mezza di questo delirio una cafona illetterata, vestita di cenci e con un forte accento calabro-cubano, qualificandosi come direttrice si palesa alle spalle della deficiente che sta ancora servendo (ma non nel modo che io ho augurato ad entrambi) il giovanotto e la apostrofa con stupore “Ma tu devi fare il ritiro plichi, che stai facendo!?

L’ameba bipede trasalisce, la collega stronza infida e bastarda che l’ha mal consigliata finge indifferenza in misura tale da prestarsi a ricoprire, con la sua faccia da cazzo, una famosa opera del Moravia e, fortunatamente, la cosiddetta direttrice, dopo un’ora e quaranta di disservizio continuo, ripristina altro sportello a servire per il ritiro plichi.

Qui, essendosi comprensibilmente esaurita la lista di quelli che aspettavano tra lo 014 e lo 020 (tra scocciati, impiccati e semplici dispersi), passo subito, ritiro una cazzo di busta del Comune di Milano e me ne esco.

Combattendo contro il vento estraggo i fogli dal plico e scopro, con soddisfazione, che il Comune di Milano che garantisce la gran qualità di vita, blocca il traffico di domenica, postula il divieto di fumare mentre aspetti un cazzo di tram ed esige pagamenti per aree cittadine da percorrere in macchina grazie a tutte le tasse che già pago, si prende un intero foglio, UNO INTERO, per scrivere il destinatario della missiva.

Do il colpo finale alla mia opera, iniziando da Cirillo e Metodio per proseguire via via a Firmino, Ildefonso, e Cutberto Mayne martire, spaziando, al contempo, dal licaone ai protozoi.

Fuori il vento è calato, per strada solo un vecchio e un cane randagio.

Il vecchio mi si avvicina e mi mette una mano sulla spalla. È San Pietro.

“Ingegnere” mi dice, “non è che abbiamo un filo esagerato? Ci sono state delle lamentele, sa?”

Io mi limito a riassumergli l’accaduto.

Il pilastro della Cristianità mi ascolta. Quando finisco annuisce pensoso, tira fuori una Marlboro dal cappotto e se la accende.

Dà una boccata, strizza gli occhi e fa: “Sa che c’è? Non ha mica torto”.

Mi sorride, prima di sparire nel nulla, alza la mano con la sigara tra indice e medio e dice “ci si vede”.

Una risatina chioccia mi fa girare, è il cane.

Mostra i denti, mi strizza l’occhio e dice “non credo proprio”.

E sprofonda negli inferi.



martedì 7 luglio 2020

Senza fallo

Ieri l'ho estratto dalla scatola e l'ho guardato.
Ha sempre la sua strana consistenza, solo il lattice sembra un po' crepato qua e là.
Eravamo andati a comprarlo io e Renato, fieri della nostra intraprendenza scema.
Il commesso, forse il padrone, tentava di indirizzare il nostro acquisto verso l'esemplare che meglio poteva soddisfare le nostre esigenze; o esperienze - come diceva lui – guidando con nordica asetticità l'acquisto di uno stupidissimo cazzo di gomma, come lo chiamavamo noi, o fallo in lattice, come lo chiamava lui.

Renato, da solito bastardo (e quanto era bastardo) col suo gusto morboso per l'imbarazzo si faceva spiegare e si dichiarava interessato a valutare le diverse "esperienze".
Che l'altro elencava con il trasporto di un registratore di cassa.
Poi via in macchina, la mia mano sul suo pacco e la sua tra le mie cosce, tra una cambiata e l'altra nel traffico di Milano.
A casa, scartato il "fallo" come ironizzava Renato, l'avremo usato per poco prima di finire a scopare nel solito impeccabile e noiosissimo modo, alla Renato per intenderci.
Un salto nella fantasia durato ben dieci minuti, un record per uno che si professava artista pazzo ed è finito nel bifamiliare a venti minuti dal Duomo con i figli dalle suore.

Poi più nulla, fino alla grande re-entrée con Alain, i suoi riccioli e le sue angosce.
Una sodomizzazione lenta, piacevole e - secondo me - non completamente ignota.
Mentre glielo succhiavo, per tranquillizzare la sua mascolinità, sentivo il suo corpo inarcarsi e flettersi seguendo a tempo il ritmo di quel cilindro di lattice dentro di lui.
Delusa ero delusa, non dal suo evidente piacere per qualcosa che non potevo dargli, ma dalle sue patetiche effusioni dopo, quando era chiaro a tutti e due che il suo "provare" non sarebbe finito con me.
Finite invece, nel giro di sei mesi, le sue cartoline dai posti più disparati; quelli che leggevo solo sui reportages di viaggio.
Il messaggio sempre lo stesso: "Ti penso".
Poi ha smesso di pensare.

Il cazzo di gomma, ripulito e inscatolato, 'che non si butta niente, l’ha risfoderato Francesco, con le sue lentiggini ed il suo dolce sarcasmo romano, ripescato nel trasloco nella casa nuova, la nostra casa, e subito bollato come "simbolo della decadenza degli anni settanta".
Anni in cui io andavo in autostop in Grecia e lui a Fregene dalla nonna, in culla.
Ma non me l'aveva fatto buttare via, stranamente visto che per lui tutto ciò che era mio era un retaggio di qualche cosa, e andava eliminato perchè non ne avevo più bisogno.
Il cazzo di gomma no, invece.

Il perché l'ho capito più tardi, quando sono rincasata e l'ho trovato a goderselo come un matto.
Mi ero anche eccitata, ma le sue scuse stupide ed il suo stupido imbarazzo mi avevano fatto pena.
In quel momento ho capito, ho voluto finalmente capire, la sua meschinità, da adolescente troppo sicuro di sé per esserlo veramente.
È sparito, e con lui sono spariti i piccoli furti dal mio portafoglio e i miei orecchini preferiti (ti fanno vecchia, diceva) ma è ritornata la mia posta.
.
E l'invito di Angelo alla sua piéce, nel teatro off più sconosciuto di tutta Milano.
Dal palco al letto non ha smesso di fissarmi per un solo istante.
E il cazzo di gomma ha fatto la sua parte, oh se l'ha fatta!
Poi basta, perché io ero sua e di nessun altro, neanche di uno stupidissimo cazzo di gomma.
E per svilirlo, per svilire me, era diventato il "nostro" centrotavola.
Oggetto di commenti (sempre gli stessi) da parte dei suoi amici attori.
Oggetto di imbarazzo quando gli amici erano miei, molto più prosaiche colleghe di Istituto, che rimanevano allibite nel vedere un cazzo a centrotavola, ascoltando per cortesia i belluini e quasi sempre inopportuni proclami di Angelo.
Nora, sola, osava guardarmi e castamente sorridermi.
E sempre sorridendo mi confessò che, anni prima, in collegio a Eton, anche lei ne aveva uno, soprannominato Rodolfo come il cugino che il padre le imponeva ad ogni cena, festa o serata possibile.

Fu la sera che mi confessò tutto, anche il suo amore ed il conseguente odio per Angelo, ormai perso in teatri scalcagnati dopo la notte di pianti e schiaffi.
E mi presentò Rodolfo, anche lui nella sua bella scatolina, anzi me lo introdusse, come precisò da brava maestrina.
E maestra lo fu, perchè mai due corpi furono così uniti, così pulsanti al ritmo dello stesso caldo respiro, così strettamente inseparati da un cuneo di gomma come lo furono i nostri quella notte.

La sua bocca, a pochi millimetri dalla mia, non mi sfiorò fino a quando il gemito tra le mie labbra si trasformò nel suo nome.
Nora, Nora e un'altra notte e tante altre notti ancora.
Una poesia involontaria e cercata, senza affanno ma senza tregua.
Un bacio lungo e profondo, che attraversava i corpi con una passione calda e intima.
Con i nostri capelli che diventavano una chioma unica, sui nostri occhi e sui nostri seni.
E quei simulacri di maschio, a riempire le vacuità dei nostri corpi e dei nostri uomini.

Così, da allora, ogni notte. Senza fallo.








venerdì 26 giugno 2020

Otoño

Otoño è quando l'umidità dell'autunno non la senti solo sulla pelle, ma anche nel cuore.
Una donna, vestita di scuro, passeggia nel parco all'ora di pranzo.
L'autunno della sua vita è alle porte e lei sente l'otoño.
Le scelte fatte, quelle sbagliate e quelle convinte, sono sedute ai banchi dell’accusa, gli indici puntati.
Le memorie cercano inutilmente di vestirsi di ironia, di proporre una risata amara che vinca sulle lacrime.
Su tutto, il dolore che oggi non ammette rimandi o ragioni, e che trasforma ogni frammento di vita vissuta storpiandolo con cattiveria e risentimento.
E la commiserazione, che straccia ogni possibilità di rivalsa.
Tutto è colpa, tutto è errore.
L’amore della vita, oggi sparito, che si traduce in accuse di stupidità, di faciloneria, come ha fatto a non capirlo subito!? Tutti quegli anni sprecati!
Lui e le sue maledette automobili, esistevano solo quelle! Lei era… un accessorio, come uno specchietto.
Per le allodole, che la invidiavano pure e che, come arpie, si erano strette intorno a lei al grido di “ma eravate una così bella coppia!”. False. Come le promesse di rivedersi, di “non ti devi preoccupare di niente, io ci sono sempre”, almeno fino alla prossima allodola, che non aspettava che uno specchietto.
E poi?
Rifarsi una vita?
Con chi? Quei simulacri d’uomo irrisolti o, peggio, ancora smaniosi di imporsi; perché lei era sempre bella, certo. Una tacca preziosa per qualsiasi pistola.
Che sparava, e poi rientrava nel tepore della fondina, per non riemergerne più.
O quelli che “l’avevano capita”, che si erano dimostrati fratelli, prima che amanti o, addirittura, innamorati.
L’amore del salvatore, del rapporto di dipendenza fatto di ”Eh, se non ci fossi io”.
Giganti dal cuore d’argilla, incapaci di accettare anche un minimo ribaltamento di punti di vista, di comprendere che l’indipendenza non significa essere anaffettiva.
Gli psicologi della domenica sera, quella del weekend passato con le figlie, gli amici, la vela o chissà cos’altro prima di ricordarsi di lei che, “scusami amore ma questo weekend sono proprio incasinato”.
E lei continua a sbagliare, perché è lei sbagliata.

Otoño è quando l'umidità dell'autunno non la senti solo sulla pelle, ma anche nel cuore.
Fragili e non più giovani occhi di donna osservano gli stivali di un ragazzo, in jeans e giubbotto, che siede nel parco all'ora di pranzo. Fissando la terra davanti a quegli stessi stivali.

L'autunno delle sue certezze è giunto e lui sente l'otoño.
Le parole scelte, i gesti forse sbagliati e quel dolore sordo dentro all’organo che neanche sapeva di avere, o che pensava di controllare a piacimento.
Invece no.
Ora che se n’è andata lui sente un peso che mai prima d’ora aveva sofferto.
Ripensa a ogni conversazione, ogni parola, e le rilegge alla luce del fuoco che lo sta distruggendo.
La rabbia.
Vaga, senza una direzione e senza una soluzione. L’affronto, l’offesa del rifiuto.
Brucia, come lo schiaffo che non ha preso. Non fisicamente che, tutto sommato, sarebbe stato meglio.
Se solo avesse capito?
Capire cosa? Quando si è sordi alle proprie parole, sprecate nella convinzione di un’esperienza che non esiste, nella sapienza vuota di conoscere tutto e di saper gestire un altro amore, un’altra volta.
Le stesse parole, sempre le stesse, ma questa volta ascoltate e comprese. Da lei, che se n’è andata.
Per quello che erano veramente, per quello che esprimevano o, meglio, non sapevano esprimere.
E gliele ha lasciate, a tormentare una solitudine improvvisa e incomprensibile.
Che non finisce, perché è lui che è finito.

Osserva senza pensare la figura davanti a lui.

Piccole nuvole di parole si incrociano tra i rami scuri dei castagni.
Frasi leggere che si improvvisano ancore di un discorso iniziato per gioco, con la inconscia speranza che gioco non sia.

Due guanti si sfiorano, e poi due mani si stringono. Il gioco diventa un’illusione, consapevole, cercata e taciuta.

Senza pudore e senza innocenza questo improvviso atto di vita si offre all'indifferenza del parco.

Così si sconfigge l'otoño.
Fino a domani.



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domenica 31 maggio 2020

Il bacio

L’aria nella stanza è fresca, accompagnata dal sommesso ronzio del condizionatore.
Lo schermo mostra due giovani, maschio e femmina, sorridenti, che addentano con sguardi complici il gelato che condividono, sullo sfondo di una spiaggia al tramonto.
L’uomo sulla trentina riprende a parlare.
“Questa è l’immagine per l’advertisement, rappresenta l’asset valoriale su cui coinvolgere la target audience: amore, gioventù e il gusto del bacio; che è anche il claim di campagna, dopo l’analisi fatta da Grovesnor e associati con una field research su circa 200 respondant, in linea con il target, in 10 locations.
L’outcome dei workshop, abbiamo anche gli appunti dei note taker, fa risaltare l’aspetto di innovation, confermato dai report degli experience moderator.”
Gli altri al tavolo annuiscono. L’uomo riprende.
“La launch campaign prevede un integrated media plan: testate TV e rotocalchi, non quotidiani perché fuori target, tanta internet con banner e skin, più affinity marketing coi portali Wajoo e Outatime e – ovviamente – i social, con storytelling e un concorso sull’user generated content.”
L’anziano all’altro capo del tavolo annuisce pensoso, quindi si rivolge all’uomo seduto al suo fianco.
“La produzione?”
L’altro afferra i fogli che ha davanti e, senza guardarli, si affretta a rispondere. 
“Noi siamo pronti commendatore; in due turni riconvertiamo la linea tre, intanto che ci arriva il preparato alla nocciola che il resto c’è già, il confezionamento è già stato modificato così che quando iniziamo possiamo inserire nell’incarto anche il bigliettino con la frase romantica, il fornitore ci dice che all’ok ce li fa avere nel giro di 24 ore.”
Il vecchio annuisce, poi si gira verso l’altro, quello alla sua sinistra.
“Costi?”
Questi si appoggia allo schienale, quasi con fare distaccato, a mostrare tranquillità.
“In produzione è un invariante rispetto al cornetto standard, l’incartamento, anche con la modifica che ha detto lui, non incide, tanto lo assorbiamo già al terzo turno.” si interrompe per appoggiare i gomiti sul tavolo e giungere le mani, intrecciando le dita ma lasciando gli indici eretti, uno contro l’altro.
“La campagna qui” aggiunge con un tono quasi beffardo, puntando con il mento lo schermo “ci ricarica un bel 07% ad unità, non abbiamo mai pagato così tanto…”
Il giovane di fianco allo schermo risponde, stizzito.
“Non abbiamo mai neanche avuto un prodotto così innovativo, che si lega al cioccolatino più famoso d’Italia e a tutti i suoi core values!”
Il commendatore, a capotavola, posa i suoi occhi, stanchi ma ancora di un bell’azzurro chiaro, sul giovane.
Lo squadra per un momento, senza interesse. Poi parla.
“Va bene, partiamo.”
L’aria nella veranda è calda, accompagnata dal fragoroso frinire delle cicale.
La vista sul mare, quel pezzetto di stretto che si può vedere da Messina al di là della via Consolare Pompea con il traffico che scorre, mostra la caligine umida che ristagna senza vento e senza onde. Forse è il giorno giusto per morire.
Così pensa Giovanni, seduto sulla sedia di vimini in veranda.
Ha 93 anni, ma la salute è buona. Un miracolo, se ripensa a tutti i suoi amici che sono già andati e, soprattutto, a quei pochi rimasti che, ormai, sono catorci d’uomo: chi non cammina, chi non sente, chi, i più, non capisce più niente e resta lì, imbambolato come una creatura, alle buone cure dei parenti o, spesso, delle suore e degli infermieri in qualche istituto.
Anche Annunziata, mallitta, l’ha lasciato. Prima di lui, che mai s’era visto; per una polmonite dopo che era caduta in casa, testarda che voleva prendersi da sola la bottiglia d’olio buono nello stipite alto.
Guarda suo nipote, Giovanni come lui, che legge sugli scalini lì presso.
È un bel ragazzo, con quel faccino furbo e i riccioli neri, proprio come lui da giovane, quando faceva correre le femmine, eh! Ma quanto lo hanno fatto correre a lui. Soprattutto Annunziata, che gli ha dato quattro figli ma l’ha fatto correre più di tutte.
Bello, il nipote rimasto a casa a badare al nonno, come gli ha imposto il padre preoccupato perché, uscendo la mattina ha salutato il vecchio con un “Ci vediamo stasera papà.”
E lui gli ha risposto “Non so, non ho chiù gana.”
D’improvviso l’idea.
“Giovanni!”, dice, “Vai da Nicola e comprami un cornetto al bacio.”
Il ragazzo non risponde neanche, si alza immediatamente e va, che il nonno è il nonno.
Neanche cinque minuti e torna.
“Quanto costò?”
“Nenti. Dice Nicola che è se per voi lo offre volentieri.” sorride il nipote.
Giovanni sorride di rimando, scarta, le mani sono ancora buone, e passa incuriosito il pezzetto di velina stampato al ragazzo.
“Che dice?” Gli occhi, invece, non sono più quelli di una volta.
Il giovane legge: “Vorrei fare con te quello che la primavera fa con i ciliegi. Pablo Neruda”
Il nonno fa spallucce e addenta il gelato.
Non si sporca, che non è mica un rimbambito, e lo finisce in poco tempo.
Fissa il mare ancora.
Guarda la carta del gelato rimasta in mano e sospira.
“Mah, non era poi ‘sta cosa...”
E muore.

martedì 21 aprile 2020

Francesco, bassista di Dio


Cicio Pepino era proprio un bel bambino.
Però adesso basta rima, che così finisco prima.
Dicevamo un bel bambino, una gioia per gli occhi, soprattutto quelli del signor Giancarlo, il papà, e della mamma Orietta Munaron in Pepino.
Tanto cercato e finalmente avuto, da due genitori ormai non più giovanissimi; lui titolare di un’avviata copisteria a Rovigo e l’Orietta casalinga modello.
La prima infanzia di Francesco (Francesco come il nonno, ma per tutti Cicio) era stata quella tipica del figlio unico arrivato quando ormai le speranze si erano ridotte al lumicino; vezzeggiato e accudito come fosse il principe della casa.
Poi, ahinoi, l’amara scoperta.
Quello che per i genitori, i nonni e persino i cugini di Cavarzere altro non era stata che una buffa singolarità, tipica dei bambini, all'ingresso nel mondo dell’istruzione pubblica (La 1° E della Scuola Elementare Giovanni XXIII, in Viale Oroboni) e in seguito ai primi problemi, venne tragicamente conclamata dal Dr. Bonvini, eminente pediatra rodigino.
Oriotesserite, malattia infame, tragica e rarissima, che limitava le capacità di enumerazione al misero quattro.
Tra le lacrime, uscendo dallo studio Bonvini, la Signora Orietta comprese finalmente quanto i segnali fossero stati evidenti sin dall'inizio, quando chiedeva al Cicio quanti pezzi di Lego c’erano sotto al letto e la riposta era “quattro e un po’ “. Oppure la risata fatta all'ultima festa di compleanno, alla dichiarazione di quanto fosse stato bello giocare con i suoi quattro amici e pure gli altri.
Un destino segnato. Soprattutto per il signor Giancarlo, che già sognava in Cicio l’aiuto in copisteria che avrebbe affiancato i suoi anni di vecchiaia: “Ma se mi entra il Rag. Scarlatti dello Studio Amoretti, e vuole cinque copie fascicolate dei rogiti, io cosa ci dico?!?”
Ma i coniugi Pepino non erano certo persone che si perdevano d’animo; cominciarono subito ad informarsi, a chiedere in giro, anche grazie all'aiuto di Don Piero Bairo, il parroco, che aveva preso molto a cuore la tragedia di quei suoi parrocchiani.
E furono consulti dai professori a Milano, viaggi verso cliniche in Germania, e pure i reparti di pediatria e di neurologia del Santa Maria della Misericordia di Rovigo, forse anche felici di poter avere un caso così eccezionale in città, si impegnarono a fondo per dare un supporto; consultando, per quanto possibile, la comunità scientifica e medica internazionale.
Venne fuori che quella maledetta Oriotesserite, in tutto il mondo, ce l’avevano soltanto altre due persone: un certo Abdullah El-Rahimi di Essaouira, che era contento di avere quattro mogli perché era il massimo che la legge ed il suo stipendio permettevano, ed il giovane Billy Ray Coleman di Ozark in Arkansas, che diceva che lui era capace di beccare un opossum a 100 piedi al primo colpo, e che le altre tre pallottole non servivano.
Al San Raffaele di Milano, basandosi sulla rara letteratura disponibile, per soli 300 Euro più 2 di marca da bollo a carico del paziente avevano consigliato ai Pepino di educare il Cicio alla musica, sostenendo che era una terapia che poteva dare dei gran bei risultati, con un po’ di tempo.
E così in casa Pepino era comparso un pianoforte verticale, sui cui 84 tasti di troppo raramente il Cicio si avventurava, benché sapesse suonare alla perfezione le prime due battute di Fra Martino Campanaro.
Il flauto dolce, alla quarta domenica di strazianti sibili, venne inavvertitamente calpestato dal Gianfranco, quando si dice il caso, dopo che, altrettanto inavvertitamente, una manata dello stesso – che intendeva ascoltare in santa pace tutto il calcio minuto per minuto - lo aveva fatto rotolare già dal tavolo in salotto.
Ma l’Orietta non era una che si dava per vinta e, già il lunedì pomeriggio, preso il Cicio fuori dal dopo scuola, lo aveva portato dritto dritto alla “La Musicale”; il negozio del Maestro Bombaci.
Qui, intenzionata ad acquistare una chitarra, aveva fatto provare al figliolo tutta una serie di modelli, dalla flamenco alla western, financo una 12 corde. Tutte prove cui il Cicio si era sottoposto senza fiatare ma, soprattutto, senza capire.
Poi, mentre la madre e il titolare discutevano di altre possibilità, dal Banjo al Charango fatto con l’Armadillo, Il Cicio si era addentrato nei meandri del negozio.
Ne uscì, trionfante e sorridente, 10 minuti dopo, ostentando un chitarrone più lungo di lui, di un accattivante giallo limone.
“Questa voglio!” esclamò a Maestro e madre. Indicando raggiante la presenza di sole quattro corde sullo strumento.
“Questo” lo corresse il Bombaci, per poi affrettarsi a spiegare alla madre “È un basso elettrico.”
SI trattava in effetti di un Manta, un bel fondo di magazzino di basso elettrico, prodotto dalla Eko di Recanati negli anni ’70. Il Bombaci sperava di farlo fuori da almeno una decina d’anni, ma ancora non aveva trovato l’amatore, o il fesso.
E, come tutti i bassi elettrici che si rispettino, aveva quattro corde; mica quelle robe da fighette moderne senza idee, che ne hanno cinque o addirittura sei!
E su quelle quattro fantastiche corde il Cicio, volando fino a casa, aveva cominciato subito a pestare giù duro come un matto.
Il Gianfranco, rincasando come ogni sera alle sei, sei e mezza, in tempo per il tiggì e mettere le gambe sotto il tavolo in santa pace, rimase stupito nel vedere gli inquilini del caseggiato al balcone, tutti protesi ad ascoltare verso la finestra del suo appartamento.
Era il Cicio, che, in meno di due ore, già padroneggiava il chitarrone con una maestria che l’Orietta c’aveva gli occhi umidi. E la tecnica poi! Le quattro dita della sinistra volavano sulla tastiera, nonostante l’action delle corde fosse più da grattugia che bella bassa sui tasti, mentre la destra, chiusa come l’artiglio di uno sparviero, diteggiava con tutte le altrettanto quattro! Una roba mai vista prima!
Solo il pollice non c’era verso di tirarlo in ballo, anche perché il Cicio, per via della sua strana malattia e del vezzo di contare partendo dal mignolo, manco lo considerava; “Uno, due, tre, quattro e l’altro”.
Ma, visti i risultati, poco male, anzi pochissimo.
Subito la notizia fece il giro della città: “C’è un ragazzino che col basso è una roba che levati!” e mai frase così criptica ebbe eco più vasta.
In breve, in tutti i locali e le balere, dal polesine al delta, da Rosolina Mare fino a Lido degli Estensi, il pubblico e i musicisti non facevano che parlare di questo miracolo.
E, come per ogni miracolo, iniziò la processione.
Il primo fu Marco Mugnaio, bassista di una certa notorietà, che si presentò a casa Pepino un giovedì pomeriggio che era di pausa. E vide quello che vide.
Da quella visita. tutti!
Nataniele Oriente, Stanlio Scarpe, Gianni Avvincentolo, Natale Redini. La crema della crema dei bassisti della zona andava a vedere e sentire quel ragazzino fenomeno e le sue quattro dita. Ma venivano anche da fuori eh? Gente come Jacopo Pastori e Ruggero Acque, mai visti prima a Rovigo, e anche stranieri come un certo Pine Palladine, dal Galles.
E ognuno, come in pellegrinaggio, recava doni al ragazzo meraviglia: Natale gli abbassò l’action delle corde, Gianni gli regalò delle meccaniche di precisione, che tenessero l’accordatura, Nataniele gli diede una bellissima tracolla in pelle di anguilla, tipica della zona di Comacchio. Addirittura, Il Pastori gli lasciò il suo amplificatore, una bestia da 100 Watt, marca Maresciallo.
Fu Lorenzo Grammi, il vecchio decano dei bassisti da balera, a suggerire una variazione a quella tecnica così eccentrica e sopraffina, ma tutto partì da un’innocente domanda.
“Ragazzo, hai mai provato ad usare il pollice?” chiese.
“Cos'è il pollice?” rispose Cicio.
“Quel dito lì” indico l’altro, “proprio in fondo alla mano.”
“Ah! L’altro!” fece Cicio, guardando quella strana e innumerabile appendice alle sue quattro dita.
E ci provò.
Neanche nella biblica Gerico i muri vennero giù così rapidi! A pestare con il pollice, l’altro appunto, sulle corde, il Cicio sembrò essere diventato tutt'uno col basso, che già comunque era un pezzo che si davano del tu.
E quel suo slappare (si diceva così, gli aveva spiegato il Grammi) scatenava un apoteosi ritmico melodica che avrebbe fatto pure resuscitare i morti, solo avessero trovato un buco dove infilarsi tra tutti quei vivi che, dai quattro angoli della città, erano piombati sotto casa Pepino a dimenarsi come ossessi, in un misto di gioia estatica e lascivia da girone dei lussuriosi.
Tutta Rovigo muoveva il culo, per parlarci chiaro. E pure a ritmo.
Quel suono, anzi quel muro di suono, aveva destato l’interesse anche del buon parroco, il Don Bairo di cui sopra, che però antepose al piacere dell’orecchio l’orrore diabolico manifestatosi ai suoi occhi, e si precipitò in casa Pepino con il crocifisso in pugno, a scacciar demoni.
“Basta! Basta!” urlò davanti agli esterrefatti Pepino madre e padre, “Cos'è quest’abominio?!? Fermate quel giovine prima che si travi!” e, con pazienza tipica dell’inquisizione spagnola, strappò il cavo dalla testata del Maresciallo, che ormai quasi friggeva.
L’oooh di delusione proveniente dalla strada non bastò a fermare il pio uomo che, anzi, avido di anime riconvertite si affrettò a riportare la virtù del Cicio sulla retta via.
“Domani” disse,”in via del tutto eccezionale, verrà a visitare la nostra umile parrocchia Sua Eminenza Monsignor PaoloGiovanni Delia Scala, rettore delle pie opere musicali vaticane.”
“Non c’è tempo da perdere: gli ho già parlato del vostro Francesco (che poi sarebbe il Cicio per noialtri) ed egli è dimolto interessato: sta organizzando il concerto di piazza San Pietro e, se il cielo lo vuole, il giovine potrebbe esibirsi alla presenza del Santo Padre!  Ma solo se usa la mano nel Cristo! Perché è nel Cristo che c’è la verità!”
I Pepino, al sentir quelle parole, si privarono delle loro, nel senso che rimasero senza, mentre il Cicio, invero, era un filo più dispiaciuto dall'essere rimasto senza amplificazione, ma pazienza.
L’indomani, vestito proprio come il giorno della cresima con un blazer blu coi bottoni dorati e con il suo bel Manta sottobraccio, si presentò di buon’ora in sacrestia, per eseguire tutta una serie di spartiti classici e di musica sacra usando tutte e otto le sue numerabili dita.
Sua Eminenza, con un orecchio a quella divina esecuzione e un occhio alla rivendita dei biglietti, accolse di buon grado la proposta del Don e, in men che non si dica, i tre Pepino vennero portati a Roma, dove, ospitati nel pio ostello delle sorelle ausiliatrici pei poverelli del sacro cuore il bue e l’asinello (tipo un Hilton a sei stelle ma esente dall’ICI) attesero il gran momento, previsto per quella stessa domenica.
Solo il Cicio venne rimbalzato di qui e di là, tra esercizi spirituali, sarto per la tunica in raso bianco, sessioni trucco e parrucco e le interminabili prove che, bisogna dirlo, si sciroppò con una professionalità che manco il Tony Dallara dei bei tempi.
Ma il diavolo che, si sa, coi distratti in chiesa fa la spesa, si materializzò nella persona di Don Angelo Epaminonda, il mite assistente al mixer che, per tema di dover ammettere i suoi gusti per la musica profana al Cardinale organizzatore, entrato di colpo nella regia mobile in Piazza San Pietro, si vide costretto a nascondere i suoi proibitissimi spartiti di musica pop nel primo raccoglitore disponibile. Sì, proprio quello con scritto sopra “Pepino F.”.
E quel disgraziato di angelo caduto non ti va a far soffiare un bel ponentino proprio nell'acme dell’esibizione del nostro Cicio? Così che, dopo un impeccabile crescendo mistico - da Fratello Sole Sorella Luna dell’Ortolani, al Io Vedo la Tua Luce di Pier Angelo Sequeri, mettendoci dentro pure una gettonatissima Ave Maria che piangevano anche le statue – il nostro si trovò davanti un Sympathy for The Devil quanto mai inappropriato. E attaccò.
PaoloGiovanni Delia Scala, che era Monsignore sì, ma anche uomo di mondo, riconobbe subito il tragico errore (quella musica non era il previsto Aleluia Benedicat Vobis di Haendel) e, correndo verso il giovane bassista, proruppe in un “No così! L’altro!!”
Mai parole furono più tragicamente interpretate.
Il Cicio, quasi meccanicamente, ripiegò le quattro falangette sulle rispettive quattro falangi, ed estrasse l’altro dito come un malavitoso di Testaccio avrebbe fatto col serramanico.
Ne scaturì un ritmo infernale che neanche quei benedetti negri ad Hyde Park nel ’69.
La piazza, attonita, per un attimo si impietrì. Ma solo per un attimo, perché già le Suore Francescane del Cuore di Gesù (delegazione proveniente da Curitiba, nel Paranà) sentirono il maligno impossessarsi dei loro fianchi e iniziarono a dimenarli così a tempo che manco una chorus line di Las Vegas.
La scintilla era scoccata e, tra Domenicani che pogavano, Benedettini che si lanciavano in avventatissimi shake e tutt’un roteare di tonache e veli, il compitissimo concerto di musica sacra si era tramutato in un rave da uscita 17 della tangenziale di Amsterdam!
Il Delia Scala capì che aveva solo una possibilità: arraffato il primo turibolo disponibile (tra l’altro attribuito al Cellini, una macigno da quattro chili) riprese la sua corsa verso il Cicio, con le intenzioni che abbiamo già capito tutti.
Un potente, brusco eppure dolcissimo e suadente “Ma dove vai?” lo fermò.
Voltatosi vide un vecchio venirgli incontro, con un sorriso che emanava una calore mai sentito prima dall'anziano prelato.
“Porca troia” pensò, molto poco religiosamente, il religioso.
Simone, detto Pietro, a.k.a. il Pilastro della Cristianità. Più dietro un tizio con uno spadone tra le mani, che scuoteva la testa come a dirgli “Vedi tu, ma io non lo farei”; fisso San Michele Arcangelo.

L’apostolo, sempre sorridendo, prese il turibolo, che al tocco della sua mano si trasformò in una bianca colombella e spiccò il volo.
“Tranquillo” disse il primo Primate, “non era di Benvenuto, me l’ha detto lui.”
Davanti al mutismo di Delia Scala continuò.
“Ma cos'è che volevi fare? Non vedi cos'ha combinato quel ragazzino?”
Sue eminenza riuscì, pur mantenendo l’estatico silenzio, a distogliere gli occhi dal Pilastro e vide.
Vide la gioia sui volti di tutta la Piazza, Sua Santità compresa; vide uomini tutti d’un pezzo ritrovare i loro 16 anni, anziane devote dimenarsi come avessero finalmente dato un senso ad una vita di sacrificio e dedizione; vide il mondo ballare, felice.
“Ma…” balbettò al Santo “ma questo è un miracolo!”
Pietro grugnì, scuotendo la testa, ma il monsignore continuò lo stesso, preso come era da un misticismo tutto suo.
“Quel… quel ragazzino” indicando Cicio che continuava a sparare slappate come non ci fosse un domani, “Quel giovine! Egli è il bassista di Dio!!” e, spinto dalla devozione o dai film di Hollywood, alzò le braccia al cielo, perché gli sembrava giusto fare proprio così.
Il Michele, sbuffando, puntò lo spadone a terra, tamburellando nervosamente sull'elsa e alzando il sopracciglio destro.
L’apostolo gli fece un brusco movimento del capo, una sorta di “Dai, su!”, poi ritornò a Sua Eccellenza.
“Sarà ‘sta roba del libero arbitrio”, disse il Pilastro, “ma voi umani non capite proprio una beata. E io di beate me ne intendo eh?” e accennò una gomitata nella pancia del porporato, ridacchiando sulla battuta.
Poi, improvvisamente, si fece torvo.
Calò la sua manona sulla testa del monsignore e gliela girò, costringendola a puntare verso il ragazzo, che martellava come un fabbro le quattro corde del suo Manta.
“Quello…”, ringhiò nell'orecchio del prelato, indicando con il suo indice vibrante il Cicio,
“Quello è un bassista della Madonna.”