lunedì 21 aprile 2025

Ostia

 Com’è bella Ostia all’alba.

La luce dirada le ombre della notte dal mare e sbianca le casette del litorale, brutte, ma rese belle dalla loro semplice povertà.

Sono case modeste, per gente modesta, che è felice di avere un tetto e poco importa se la porta di casa è un’orribile e sgraziato infisso di alluminio anodizzato, un moderno pugno nell’occhio di fronte alla vetustà dei muri.

Però sono belle, come un sorriso senza qualche dente, che appare sgraziato, magari anche ridicolo, ma che è bello perché è un sorriso.

Queste casette, incastonate tra spiazzi sabbiosi a ridosso della spiaggia, si stanno ridestando alla luce di questo sole di novembre, che illumina ma non scalda.

E sento i rumori di chi si ridesta al loro interno: qualche pentola che batte sui fornelli, qualche parola, qualche scroscio d’acqua. Presto usciranno verso la loro giornata, Verso un viaggio; in bicicletta, in motoretta o in corriera. Verso altrove, comunque, perché qui non c’è niente.

Ci sono solo io, disteso in questo spiazzo.

E, forse, qualcuno di questi viaggiatori dell’alba, vedendomi, griderà. Spezzando il silenzio che ha accompagnato la notte, che ha accompagnato il mio martirio.

Perché io sono morto.

 

Non ho pensato. Per una volta non ho pensato.

Ma ero spinto, travolto, dalla voglia di recuperare quelle immagini.

E quei ragazzi, che conoscevo e frequentavo, tante altre volte si erano dimostrati utili e comprensivi.

Dall’evitare il furto dell’auto al capire che ero fatto così, come altri tra loro, e che non c’era scandalo o ribrezzo perché, quelli sì, sono vizi costosi, che puoi mantenere solo se puoi condurre una vita senza debolezze necessarie, senza necessità di fronte alle quali la morale comune sparisce, perché non capirebbe.

Certo, ci si scherzava, ma come si scherzava sul labbro leporino di Riccio o sull’accenno di gobba di Richetto.

Questi non scherzano, non sono capaci.

TI prendono in giro, e ridono. Ma sono quelle risate ignoranti, fatte risuonare perché non hanno ben capito perché ridere, ma hanno capito che devono ridere perché anche gli altri lo fanno.

E lo fanno nei lugubri locali che frequentano, protetti dall’ombra di qualche associazione o dal simbolo di uno dei loro partiti, ma lo fanno anche nelle raffinate e sussiegose stanze delle loro case.

Cambiano i personaggi, ma la ristrettezza mentale è la stessa. In basso offensiva e ignorante, in alto sussurrata e maliziosa. Ma accomunate dalla stessa paura

Per questo hanno rubato le mie immagini.

Perché gli dava fastidio, il fastidio di dover ammettere che era vero, che di fronte alla morte tanto osannata dalla loro retorica, la certezza di vederla arrivare faceva ancora più paura, perché sarebbe stata una morte orribile e tragica.
E quindi si ubriacavano per non vederla.

Ebbri della loro stessa violenza, perché di altro non sapevano vivere.

E le mie immagini lo dicono, lo fanno vedere.

Ma è uno scandalo.

Non per loro, che capiscono solo le offese e le botte. Ma per gli altri.

Quelli che non si sporcano le mani, quelli che sono moderati. Quelli che sono “per bene”.

E tutto questo è scandaloso, schifoso; come si fa a parlare di certe cose!?!
Ma ne discutono, anzi ne fanno discutere i loro portavoce, i giornalisti dei loro giornali, gli scrittori dei loro libri, i politici dei loro partiti.

L’importante è quel “loro”, che li distanzia, tanto, dalle vite che non vorrebbero mai vivere, ma delle quali giudicare.

Per denigrarle, rabbrividirne a volte, e comunque stigmatizzarle, come negative, abiette, vittime e generatrici di violenze.

Ma sono i silenzi dei loro salotti buoni i complici delle violenze, i mandanti delle nefandezze che loro vedono, certo giudicano, ma non rifiutano, non, mai, condannano.

Quelli che, domani, leggendo della mia morte, esprimeranno un rammarico, forse, ma non confesseranno il sollievo.

 

Mi hanno massacrato, per eliminare con la rabbia violenta e cieca la loro paura, come sempre ha fatto l’uomo.

Mi hanno condannato perché ho commesso il crimine più grande, ai loro occhi e per le loro menti semplici.

Non la mia sessualità, che, credo, ha creato più tormenti a me che a loro, non la mia sfrontatezza, che il mio coraggio aveva ingigantito, no.

Ogni mia parola, ogni mio scritto, ogni immagine che ho composto per loro era la prova schiacciante della mia colpa.

Ma io volevo solo raccontare.

Le storie, di tutti di noi.

Quelle famose, quelle semplici, che sono le stesse, solo capitate in altri momenti, ad altre persone.

Le tragedie greche risolte in risse di periferia, i drammi d’amore dei principi nordici riportate in un bar del centro, tra commessi di belle speranze e signore di perdute bellezze.

 Io volevo solo raccontare.

Per dire a tutti che non era come la pensavano loro, che c’è poesia anche in un dialetto sgangherato e senza futuro nella modernità, che una prostituta può cercare una vita migliore, che un questurino può essere una vittima.

E ho fatto pensare.

Ho fatto pensare tutti, chi già conosceva i mali che ho descritto, chi li comprendeva per la prima volta, chi li usava, da tempo, per il proprio tornaconto.

Ma, soprattutto, ho fatto pensare anche loro, che odiano farlo. Perché il pensare li tormenta, rende difficili le loro basiche, semplici, logiche.
Perché contrasta la loro vera forza, che è ignoranza, delle cose ma, su tutto, ignoranza degli altri.

L’ignoranza del prossimo li rafforza nella loro cieca dottrina che tutto ciò che è contrario alla loro natura è sbagliato.

E, se non gli riesce di perseverare nell’ignorarlo, va eliminato.

Hanno dato nomi, colori e facce terribili a questa convinzione: fascismo, nazismo, nazionalismo, qualunquismo, totalitarismo.

Ma sono tutti frutti dello stesso albero, l’albero più antico che l’uomo coltiva da sempre. Fin da quando si è affacciato su un mondo di cui non conosceva nulla e che, perciò, era fatto di pericoli.

Questi cavernicoli moderni, che hanno sostituito alle clave la polvere da sparo, agli orpelli fatti con denti delle bestie ammazzate i consumi di una società che si identifica sempre più in ciò che hai piuttosto in chi sei, credono di essere riusciti ad eliminare un’altra delle loro paure.

Per non pensarci più.

Ma, dovessero anche bruciare fino all’ultimo dei miei scritti o dei miei fotogrammi, non riusciranno, come è stato per altri, tanti altri che hanno trucidato prima di me, ad eliminare la mia idea, il mio pensiero.

E il mio nome.

Qui, su questo spiazzo sabbioso vicino al mare di Ostia, giace – immobile - il mio corpo morto.

Ma non il mio nome.

Pier Paolo Pasolini.

 

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