martedì 19 gennaio 2021

Mozzarellone di Mare

Osvaldo Lacuale non era mai contento. 


Già il suo nome gli stava antipatico: lo trovava un nome stupido e insulso, per di più era l’unico della famiglia ad averlo, cosa che lo faceva arrabbiare anche di più. 

E poi non gli andava bene niente; a scuola non andava male, ma neanche troppo bene, perché non c’era una materia che gli piacesse, che lo appassionasse.
Se la cavava perché aveva una bella parlantina e perché, lì all’isola della Tortuga, gli insegnanti e i professori erano tutti pirati anche loro e non è che proprio fossero le matite più appuntite della scatola. 

Coi compagni e le compagne si trovava bene: era un bonaccione a cui piaceva stare in compagnia, ma anche loro notavano che Osvaldo aveva sempre qualcosa da criticare, o trovava che qualcosa era sbagliato e si sarebbe potuto migliorare. 

Insomma, un criticone. 


Quando gli amici con cui aveva più confidenza gli facevano notare questa cosa Osvaldo si giustificava: 

“Non sono mica io! È la Cegnar, qui dentro!” indicando la testa. 

E spiegava, a chi voleva capire, che dentro la sua testa risiedeva un’anziana e arcigna professoressa, che passava il tempo a criticare tutto quello che Osvaldo faceva o diceva.
Gli amici ridevano, increduli, cosa che infastidiva Osvaldo, ancora di più. 

Finite le scuole dell’obbligo (che alla Tortuga si chiamavano le scuole del “Beh, obbligo… vedi tu”, per ovvie ragioni) decise di iscriversi all’Omnicomprensivo di Capitaneria Piratesca, un istituto superiore difficilissimo e duro, in cui formavano il fior fiore della pirateria mondiale, con studenti che venivano anche dalle Barbados, dalle isole Andamane o da vicino Gallarate.  

A tutti fu subito chiaro che per Osvaldo sarebbe stata dura, non ne sarebbe uscito Capitano, ma neanche nostromo o vice sotto addetto aggiunto al fiocco, così, per prenderlo un po’ in giro, gli amici e i compagni gli avevano dato come soprannome “mozzarello”, che era anche meno di mozzo.
Siccome però Osvaldo era grande e grosso, avevano adattato il soprannome alla sua corporatura. 

E così era nato “Mozzarellone di mare”. 

Perso com’era ad ascoltare la Cegnar Mozzarellone non si curò più di tanto di quel nome e, invece, si buttò in mille avventure per dare una forma ed uno scopo alle idee che sentiva di avere, anche un po’ per sconfiggere la prof. 

Tentò di dar vita ad una moderna carrozzeria e verniciatura per navi pirata, un’idea buona sulla carta ma, come si sa, la carta quando si bagna è inutilizzabile.
Leggeva libri su ogni argomento, assorbendo conoscenze su temi quali l’origine delle lingue europee, la storia del merluzzo nell’evoluzione umana o il ruolo dei mattatoi nell’industria del fast food statunitense.
Provò a proporsi come addetto alle comunicazioni di coffa, ma nessun pirata ne sentiva il bisogno, nonostante, per Mozzarellone, il fatto di saper comunicare in modo preciso e chiaro avrebbe aiutato di molto le attività a bordo. Perché lui lo aveva capito subito, erano gli altri scemi e ignoranti! 

Il primo impiego, in età da pirata ormai fatto perché - per seguire le sue chimere - Mozzarellone aveva perso molto tempo negli studi, lo aveva avuto agli ordini del Capitan Bisboccia, uno che aveva fatto la gavetta e anche parecchi gavettoni e che aveva giudicato Mozzarellone anche meglio di come si considerasse quel fesso. 

E aveva avuto ragione, il Bisboccia, perché in poco tempo Mozzarellone aveva trasformato le critiche della Cegnar in capacità di gestione, e i suoi modi (affinati in anni di contrasti interni con la professoressa) convincevano gli altri marinai. 

In breve, si ritrovò a far carriera, prima come capo dei suoi stessi colleghi, poi sempre più su. 

Nel tentativo di dar pace a quella voce interna che lo accompagnava sempre aveva imparato a scomporre qualsiasi problema o compito in modo da poter risalire alla causa, tralasciando le conseguenze. E a coinvolgere, piuttosto che ordinare o minacciare. 

Insomma, era uno dei pochi pirati, se non l’unico, che sapeva buttar giù un piano Gantt dell’abbordaggio, e questo si vedeva, oh se si vedeva. 

Pure Mozzarellone non era contento. Al solito. 

Sì, aveva fatto il pieno di dobloni con l’attacco alla “Nuestra Senora de Guadalupe e Dintornos”, che era piena come un ovetto, aveva sconfitto in battaglia il temibile Ammiraglio O’Hissaw, dei reali Sommozzatori a Cavallo. Ma, dentro di sé, sentiva sempre quella vocina (per la verità sempre più stridula e arcigna) che non si accontentava mai.
E allora scaricava tutte le sue frustrazioni spingendo il suo equipaggio oltre ogni limite, altro che colonne d’Ercole e quel cippalippa di Ulisse!! 

Gli altri capitani!? Tutti degli imbecilli!
I comandanti delle navi spagnole, portoghesi o inglesi? Degli inetti, capaci solo a piangere quando Mozzarellone gli speronava le loro belle navi tutte lustre… 

E lui, Mozzarellone di mare, solo lui stava ritto su un’immaginaria montagna in mezzo all’oceano, brandendo la spada infuocata della verità e della sapienza!  

Solo e ammantato della sua stessa grandezza. 

Oh, di cose ne sapeva fare eh? Dal circuire i mercanti genovesi all’allietare le belle fanciulle al suono del liuto o delle sue flautate parole. ‘Ste polle che ci cascavano…
Sapeva smontare e riparare un timone Formichetti & Guidotti a doppio comando idropneumatico con solo un cacciavite spuntato e un Victorinox col cavatappi.
Oppure scrivere e declamare un commovente saluto di commiato per il vecchio Barbatrita, così bello che, all’arrembaggio d’addio del vecchio pirata, anche gli spagnoli si erano messi ad applaudire. 

Insomma, genio e sregolatezza. Anche se, per molti, il BRT che doveva consegnare il genio era fermo da anni al casello in autostrada… 

E, su tutto, questa frenesia di andare oltre, di fare cose diverse dall’ipotetico seminato, per sganciarsi e seminare quella voce saccente dentro la testa. 

Ma non c’era niente da fare. 

Non poteva neanche gustarsi il bottino sottratto ai soliti olandesi (un cofano pieno raso di diamanti e tre tonnellate di una strana erba secca che puzzava forte) che già la Cegnar incalzava “Eh! Se avessi pensato ad ottimizzare l’equipaggio, che il secondo prodiere era di troppo, adesso il bottino lo spartivate in diciannove invece che in venti! Lo hanno capito tutti! Che figura!!” 

E via così. 

E per rispondere alla Cegnar, alle sue stramaledette frecciate che rifacevano pensare tutto, Mozzarellone si eclissò sempre di più.
Se ne stava per i fatti suoi, solo a casa, tra mille oggetti accumulati nel tentativo di saperne di più, di pensare meglio. Dall’uovo di Dodo ancora fresco ad un liuto elettroacustico a sedici corde, che pizzicava con maestria, ma solo per le sue orecchie. 

Nelle rare uscite però, piazzava sempre qualche colpo da fuoriclasse, come farsi consegnare gli orecchini della Duchessa d’Angiò dopo averla convinta che irradiavano luce perché radioattivi e quindi pericolosissimi.
Oppure farsi pagare una lauta consulenza da esperto in calafataggio presso i Cantieri Navali Olivetti & Fusetti, dopo essersi letto appena appena l’articolo “I miracoli del catrame”, in un numero di Selezione dal Reader’s Digest del ’57. 

Perché saperci fare, tutto sommato, ci sapeva fare. 

Ma la Cegnar era sempre lì, a giudicare, a denigrare. 

Così, il giorno del suo funerale, nessuno tra i presenti si stupì quando, dal fondo della sala, emerse un gigantesco Capo Indiano. 

Qualcuno giurò che era un vecchio nemico di Mozzarellone, sconfitto in battaglia al largo della Cappadocia, qualcun altro riferì invece di una lunga amicizia nata in un bar di Ougadougou, quando il Capo aveva sparigliato il sette a scopa ma Mozzarellone aveva risolto tutto con una napola all’ultima mano. 

Senza dire una parola il Capo si avvicinò al feretro, ne estrasse il corpo di Mozzarellone e, messoselo in spalla, ritornò da dove era venuto. 

Giunto sulla porta si fermò, si voltò verso gli astanti e disse: “Lui viene con me, da solo.” 

E tutti capirono che, finalmente, Mozzarellone di mare non avrebbe più sentito la Cegnar.