lunedì 20 gennaio 2020

Nicola


Agata
Scusami per il ritardo ma ero via e ho letto il tuo messaggio solo ieri. Per me va bene: il film non l'ho visto e ho voglia di vederlo; solo che non posso venire a cena, poi ti spiego del tuo amico, richiamami ciao!

Francesco
Nicolissimo!
Ho parlato con Bovinazzi e mi sembrava interessato. Gli ho detto che ci potremmo vedere tutti e tre una di queste sere... chiamami che ci mettiamo d'accordo. Ciao! F

Adriana
Ciao, dovresti firmarmi la delega per l’assegno familiare di Eva, te lo lascio in portineria qui da noi.

Pannello Editore
Buongiorno, sono Francesca Amati delle Edizioni Pannello.
Ho ricevuto il suo email di ieri e volevo discuterne con lei.
Mi può richiamare anche fuori dall'orario d'ufficio. A risentirci. Buongiorno.

373776528
Eh, ma che foto del profilo scema che hai!
Sono Sara, mi hai riconosciuto? È un bel po' che non ti fai sentire! Chiamami che facciamo quattro chiacchiere... Bacio.

Mamma
Sandro mi ha detto che l'hai cercato ma non ti ha più sentito... richiamalo che mi sembrava ti volesse parlare anche lui... stai bene? Io ho ricominciato coi soliti dolorini, con questo tempo poi non ti dico. Domenica vieni a pranzo qui... non ti vediamo mai! Aspetto una tua telefonata così mi confermi. Ciao!

Amministratore
Sono Andreetto dello studio Corvaglia, mi spiace ma abbiamo ricevuto altre lamentele per quella persona che l’aspetta la mattina sotto casa. Ci sono dei condomini preoccupati e il Dottor Corvaglia la prega di trovare una soluzione perché ci è stato richiesto di farle scrivere dal legale. Attendiamo un suo riscontro, grazie.

Eva
Papà non venirmi a prendere domani che esco con Erminia e Giorgia. Ciao.

Antonia
Ciao Nicola.
Sono incasinatissima ma l'invito per giovedì è sempre valido. Spero che tu possa venire perché mi hanno detto che lo spettacolo è molto interessante. Al limite ci prendiamo una cosa prima di entrare, o dopo. Comunque fatti sentire. Ciao.

Laura
Ho capito che non ti fai sentire. Speravo che il tempo cambiasse le cose. Io sono qui. Ciao

Sandro
Ciao, ricordati che martedì abbiamo fissato la riunione anche con gli altri. Se per caso non puoi ti prego di richiamarmi. Il progetto l’abbiamo già inserito in agenda per la validazione del comitato scientifico ma è importante ribadire l’interesse comunitario anche di fronte al gruppo di lavoro. So che sei un po’ dubbioso sui nomi ma spero comunque che tu possa perché ci teniamo molto e questa dovrebbe essere la riunione decisiva. Franco e Mario li ho già contattati io, non ti preoccupare. Spero di vederti o di sentirti prima. Ciao.

Numero Privato
Bastardo, stai sempre a fartela coi barboni!?!? Hai capito che hai rotto il cazzo buonista dei miei coglioni?! Vi prendo a bastonate tutti e due!!!!!

Rosati
Buongiorno Professore, oggi ho lasciato la prima parte del lavoro in segreteria, aspetto le sue osservazioni, buongiorno. Ferdinando Rosati

I soliti cretini
Ciao raga, mercoledì al cinese in via Rasori? Chi c’è?

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Mamma mia come ti fai pregare! E lo sai che ci dobbiamo parlare… dai!! Sara

Francesco
Nicola non credo tu abbia letto il precedente, sai che per me Bovinazzi è importante per far partire la cosa. Non puoi mollarmi! Aspetto una tua chiamata. F

Agata
Il tuo amico si è dimostrato per quello che è, quindi io per cena sono libera, liberissima!!

Mamma
Ma lo leggi sto coso? O non ti importa di tua madre?

Laura
Ma almeno il coraggio di dirmi che non te ne frega più niente?

Adriana
Ricordati la delega, o almeno rispondimi!

Antonia
Scusami Nicola ma è saltato tutto, lo spettacolo non si fa per via dei soliti incapaci della fondazione. Io ti aspetto per l’aperitivo, così ti racconto meglio.

I soliti cretini
Io non ce la faccio, saggio di danza della piccola!

373776528
Non puoi fare così! Non sono mica una puttana!!

I soliti cretini
Allora ci vediamo lì che mi hanno incastrato anche a me!!

I soliti cretini
I figli maschi dovevate fare!

Eva
Papà tu ce l’hai Netflix? Mi dai la password che così lo vediamo anche in montagna con Carla e Iris?

Francesco
Nicola rispondimi per favore! Bovinazzi mi ha detto che se non ci sei anche tu lui non fa niente!! Io non posso rischiare!! Francesco

Numero Privato
Cos’è te lo porti anche a casa adesso!?! Non la senti sta puzza per le scale pezzo di merda!!!?!

373776528
Sei uno stronzo e io una cretina che ti ho creduto. Ti odio!

Mamma
Adesso neanche al telefono mi rispondi?

Laura
Niente. Sparito, come hai fatto per tutta la vita.

Adriana
Ma almeno di una cosa che serve a tua figlia ti puoi ricordare!!?!?

Amministratore
Professor Bombaci, il custode ci ha informato di un forte odore per le scale, sembra provenire dal suo appartamento. Lei è in casa in questi giorni?

Cronache
Stroncato da un malore docente universitario.

Neanche il cattivo odore per le scale aveva allertato il custode e i vicini; è stato un senza fissa dimora, Duilio P. di anni 67, a dare l’allarme circa l’improvvisa assenza del professor Nicola Bombaci, ordinario di filosofia all'Università.

Il mendicante, con cui il professore si intratteneva ogni mattina per scambiare quattro parole, ha insistito perché il custode controllasse la presenza in casa del cattedratico.

Solo il successivo intervento dei pompieri ha portato alla luce la tragica situazione: il professore ha avuto un malore in casa qualche giorno fa, malore che sembra averne causato il decesso immediato.

Molto conosciuto e apprezzato sia in città sia in ambito accademico, il Professor Bombaci, separato da qualche anno, lascia una figlia di 16 anni.

Numerosi i messaggi giunti.

Il successo


Gordon Wallace guardò dalla finestra.
Più che una finestra un oblò, pensò.
Gli strati di alluminio trasparente avevano la stessa funzione del vetro, ma l’atmosfera di Ariane non permetteva di estenderli molto in larghezza.
Così, da uno degli oblò del suo ufficio ai piani alti della Wallace WorldsMedia, vide arrivare la navetta che aspettava.
Meno di cinque minuti dopo il volto della sua assistente personale su Ariane emerse dal CommPad sulla scrivania.
“Signore, sono arrivati, sono in due” disse la Roveriana.
“Mi dia cinque minuti” rispose Wallace, sedendosi.
Aprì il cassetto alla sua destra e tirò fuori un tumbler di cristallo e una bottiglia di Single Malt 12 anni.
Si versò tre dita di whisky, complimentandosi per aver scelto una Roveriana come assistente. Erano gli alieni di aspetto più simile agli umani, eccezione fatta per i capelli spessi come dreadlocks e il colorito olivastro della pelle. Nonostante fosse stato Ambasciatore della Differenza Interplanetaria (o come cazzo si chiamava quella roba per cui manco lo avevano pagato), Wallace mal sopportava arti in più, tentacoli, chele o roba simile.
La porta dell’ufficio si aprì, la Roveriana (com’è che si chiamava?) sorrise e fece cenno ai due ospiti di entrare.
“I suoi ospiti, Signore”
Wallace non finse neanche un sorriso, dall’alto dei suoi quarant’anni spesi a scalare il mondo della musica interplanetaria fino a dominarlo poteva permettersi di non sorridere, anche di fronte all’idolo del momento (Nikoh, terrestre) e il suo mellifluo pelosissimo agente (Rhaaj, Orwandiano).
Fu il ragazzino a rompere il silenzio.
“Ma davvero morirò?”
Wallace appoggiò i gomiti alla scrivania, fissò per un momento gli occhietti luccicanti in mezzo al pelo di Rhaaj e rispose al ragazzo.
“Ma no, stellino, non ti preoccupare. È solo il colpo di genio del sottoscritto per la mossa finale della tua fantasmagorica carriera!”
“Finale?” chiese l’Orwandiano, tramite la voce amplificata del multitraduttore SpeekEZ™.
 “No, non finisce un bel niente perché, tempo sei mesi, cominciamo con gli inediti, i bootleg non ufficiali dei concerti, le ristampe in digitale rimasterizzato dei dischi d’esordio, gli album tributo, i concerti in memoria e intanto alimentiamo il mito con la storia che è morto, una roba così non è riuscita neanche ad Elvis!”
“Elton?” Chiese Nikoh.
Wallace sbuffò.
“No, Elvis... lascia stare, non abbiamo tempo per questo. Fidati.”
Rhaaj annuì, o almeno così sembrò.
“Ma io… io non so se voglio morire…”
“Ascolta, Einstein” si fermò a fissare lo sguardo smarrito del ragazzo di fronte a lui e poi riprese:“lascia perdere, un giorno poi ti spiego anche questa.”
“Ascolta bene: primo, non muori veramente. Chiaro? Smetti di esistere “artisticamente” ma nessuno ti torcerà un capello, stai tranquillo. Secondo, quanto veramente credi di poter tirare avanti, da vivo? Hai fatto il contest tre anni fa, hai vinto perché ti abbiamo disegnato come il “ragazzo terrestre che vuole fuggire da sé stesso”, e qualsiasi cazzo di significato abbia la cosa ha funzionato.”
SI interruppe, un vecchio trucco per dare agli altri l’impressione di un discorso meditato. Prese un sigaro di Juanamaria, l’erba blu che cresceva ovunque su Ariane, e se lo accese.
“Ti abbiamo fatto vincere il festival interplanetario, e mi sei costato più in giornalisti pagati per far polemica che in giudici, ti ho fatto fare il tour più idiota del mondo, con i concerti tenuti nelle discariche per protestare contro lo sfruttamento del pianeta terra, ma ha funzionato. Ti ho pagato tre love stories con altrettante attricette e puttanelle pubbliche di tre mondi diversi, compresa una che aveva il doppio dei tuoi anni!”
Bevve un sorso di single malt dal bicchiere sulla scrivania.
“Ma sono tre mesi che mi sei sceso in classifica, e Dio solo sa quanto cazzo mi è costato convincere i migliori turnisti del mondo a farti da “Band” per il tuo “greatest hits remix”! E la concorrenza ha sfoderato quella cretina Vourzyana con i tentacoli e una minchia di fisarmonica e hanno fatto il botto, mentre tu non sai distinguere un Do maggiore da un fischio di treno… qualcosa ci dobbiamo inventare, no?”
“Ma non potrò più fare la mia vita, e la mamma?”
“La tua vita ha smesso di essere tua quando hai cercato la fama e il successo! O vuoi farmi credere che veramente “volevi esprimere quello che hai dentro”?”
“Sai che neanche i pennivendoli più affamati hanno accettato di scrivere questa cazzata? La tua mammina, l’attempata tettona che farebbe qualsiasi cosa pur di farti salire nella top hit di tutti i sistemi planetari, vivrà dei cospicui diritti di autore che, forse, dividerà con te; ma io le farei firmare due carte prima di sparire come personaggio pubblico…”
“Ma, ma non c’è un altro modo?”
“Mah, l’alternativa è un po’ vecchia, l’abbiamo già usata. Tiriamo fuori uno scandalo sulla tua sessualità, lo pompiamo di accuse omofobe e attacchi sui social con scherzi e battute in TV, paghiamo qualche letterato perché ti difenda e alimentiamo la discussione, ma così tiriamo avanti qualche mese, massimo un anno… e poi non dovunque.”
Si appoggiò allo schienale: “Cazzo su Ryona hanno tutti tre sessi dalla nascita, cosa vuoi che gliene freghi delle tue trasgressioni!?”
Si raddrizzò sulla sedia, sporgendosi in avanti dalla scrivania, verso il ragazzo.
“Se muori invece passi allo stato di mito! Hai capito!?! Le ragazzine di ogni pianeta compreranno quelle cazzo di tue canzoni tra vent’anni solo perché le mamme avranno raccontato la tua storia con occhi lacrimosi! Andrai a finire nell’olimpo dei “too young to die” troppo giovane per morire!! In compagnia di gente che manco sai chi cazzo sono ma che dovresti ringraziare solo per averti accolto tra loro. Farò, faremo, un sacco di soldi per anni, decenni! Cazzo! Se muori diventi immortale! Ce la fai a capirlo o vuoi un disegnino!?!”
“Ma che scandalo sulla sessualità!?” chiese il ragazzino, un po’ corrucciato.
Wallace sbuffò di nuovo.
“Minchia! Ancora lì sei!?”
Si appoggiò allo schienale.
“Ti costruiamo una storia omosessuale, come fosse un incidente di percorso, poi vediamo come va e, se prende la piega giusta, ti spostiamo nell’area dell’audience “pro diverso” e ci ficchiamo su anche una bella campagna sociale con la tua faccia in nome della diversità, ti schiera un po’ tanto ma è un argomento che tira e, se ci portiamo dentro i politici ci facc..”
Il ragazzo si alzò in piedi gridando
“NO! Io frocio no! Li odio i froci io!! E poi la mamma… la mamma…”
Rhaaj l’Orwandiano si irrigidì, e con lui i suo i peli. Aveva avvertito il click dell’interruttore che era scattato nella testa di Wallace.
“Ascolta, pezzettino di cacca.” disse Gordon, freddamente.
Nikoh si incavò ancora di più nella poltrona mentre Rhaaj, impercettibilmente, allontanava la poltrona dal suo assistito.
“Hai una minima, vaga, idea di quanto contino le tue opinioni e quelle della tua mamma in questo business!?”
“N-no…”
“Bene, allora te lo dico io: niente, un cazzo, zero, un sasso di Oskan-3, una particella di pulviscolo spaziale ha più peso per me e il mio business!”
“Tu sei famoso, sei un mito su sedici sistemi stellari e ancora vuoi dire qualcosa?!?”
Wallace aspirò un tiro del sigaro, lo inalò profondamente e poi lo sbuffò in faccia al ragazzo.
“Sono più di trent’anni che costruisco successi, cos-tru-i-sco! Capito!”
“Mai toccato un tasto o una corda e mi chiamano il genio della musica! Sai perché!?”
“P-p-perché?”
“Perché io so cosa piace alla gente, in 47 pianeti diversi! E se non gli piace glielo faccio piacere!”
Puntò uno degli oblò sulla parete.
“Là fuori ascoltano, comprano, impazziscono, appendono i poster in camera o in quelle cazzo di tende da nomadi di Aarkhon di quello che gli dico io! Quello che gli ho fatto piacere con un percorso studiato, calcolato e eseguito da ME!!”
“Ma, ma la mia musica…”
“La tua musica! LA TUA MUSICA!?!” Wallace si appoggiò alla scrivania, quasi vacillando.
“Ascolta stronzetto, non so se te ne sei accorto, mentre partecipi alle serate e all’ospitate dove ti mandiamo noi, ma sono trent’anni che la musica non esiste più, per tutti, non solo per te.”
Aspirò profondamente dal sigaro.
“Nessuno ascolta più, comprano. Comprano il prodotto che noi gli confezioniamo, che non ha un cazzo a che fare con i gorgheggi che emetti o con le note che gli facciamo mettere attorno. La creatività non paga, la scienza si: ogni tua deiezione sonora è calibrata per completare il prodotto. Le sperimentazioni musicali, il gusto del suonare, la schitarrate in riva alla spiaggia con testi pensati e accorati non sono da industry. Vuoi sballare in spiaggia? Portati un SoundBoom™ ricaricabile e pompa a tutto volume i pezzi che hai comprato online!”
Prese il bicchiere dalla scrivania e bevve un sorso.
“Ho lavorato una vita per lavare via l’incertezza della fantasia dal verde dei soldi!!”
Si rivolse all’Orwandiano, puntandogli contro il dito.
“E quindi adesso spiega tu a questa nullità cosa vuole dire discutere le mie idee, perché a me, di lui e della sua mamma…”
L’agente alzò lo sguardo verso Wallace, aspettando il resto della frase, del cui significato peraltro tutto gli era già molto chiaro.
Wallace, paonazzo in viso, si era bloccato. Cercò di portarsi il sigaro alla bocca, ma non ci riuscì.
Si accasciò su sé stesso, cadendo sulla scrivania e rovesciandola all’indietro e facendo fracassare il tumbler di whisky.
Immobile sul pavimento diede un rantolo, poi il respiro si fermò.
La Roveriana, richiamata dal baccano, entrò nella stanza, mentre gli altri due erano impietriti sulle poltrone.
Girò oltre la scrivania e si chinò su Wallace. Lo toccò.
Gli prese il polso. Poi scosse la testa e lo lasciò andare.
Si prese la testa tra le mani, singhiozzando.
Guardò il sigaro, spentosi cadendo nella pozza di whisky, accanto al bicchiere in frantumi.
“Gli dicevo di non esagerare! Ma non mi ascoltava, non ascoltava nessuno! Diceva che era troppo giovane per morire!!”
Nikoh, ancora a bocca aperta, si girò verso il suo agente.
“Come Elton!”

giovedì 9 gennaio 2020

Atun

Lo svegliò il suono del campanello. Sacramentando andò ad aprire.
Era Triglia, un suo lontano cugino.
In realtà non era proprio un cugino, lui era un Tonno e questo era un Triglia, quanto piuttosto il figlio di un vecchio amico di suo padre.
La faccia abbastanza inespressiva del Triglia gli ricordò che era domenica, e che una settimana prima si era deciso di andare a trovare la vecchia Aurelia. Sua madre.
"Come va?" gli chiese senza cambiare espressione il Triglia.
"Bene, bene" fu la sonnacchiosa risposta, "Vuoi un caffè?"
"Grazie"
Si sedettero in cucina. Il casino era evidente.
"Festa?" chiese il Triglia.
"Cena con amici"
"Ma quando crescerai?" E una punta di disanimo si insinuò nella espressione Trigliesca.
Non ci fu risposta. Che risposta dare ad uno che si era sposato a ventiquattro anni e che lavorava nello stesso posto da 25? Nessuna.
Il Triglia, d'altro canto, non se ne aspettava molte.
Il borbottare della caffettiera li risvegliò dai rispettivi studi sulla vita infame e/o dissoluta che conduceva l'altro.
"Zucchero?"
"Uno grazie"
Il primo sorso di caffè li rilanciò nello scheletro di una discussione costruttiva.
"Novità?"
"Non molte, tu?" rispose per pura cortesia il Tonno.
"Caterina ha deciso di entrare a ingegneria"
"A-ah..." e poi "...Caterina è la maggiore, no?"
"No" sospirò Triglia, "Il maggiore è Antonio, Caterina è la seconda"
"Ah, sissì...", me li confondo sempre"
Il Triglia glissò su come fosse possibile confondere un maschio con una femmina, ributtò l'argomento sul tavolo per evitare risposte che sapeva mute.
"Era indecisa fra ingegneria e architettura, l'ho fatta ragionare e s'è convinta"
"Mmmh" fu l'apprezzamento di un Tonno intento a individuare un qualsiasi oggetto che assomigliasse a cibo.
La cosa non sfuggì al Triglia:
"Ci sono dei biscotti sullo scaffale alto"
"Ah! ...grazie" disse colpevolmente Tonno. Cazzo! Mezzo pacchetto di biscotti secchi e non un goccio di latte in tutta la casa!
"Marina dice che adesso che i ragazzi sono cresciuti vorrebbe trovarsi un posto... l'idea non è male, con tutte le spese che ti danno le università... a Antonio gli manca ancora un anno e la tesi, Caterina comincia adesso..."
Il Tonno cercò di pensare rapidamente ad una frase valida per discorso e oratore. La trovò.
"E tu?"
Triglia si mise comodo sulla sedia, pronto a illustrare. Tonno sorrise mentalmente e ringraziò Dio per l'ispirazione.
"Mah! Cosa vuoi che ti dica, quattro lirette in più farebbero comodo, ma cosa farle fare a 'sta benedetta donna!? Sono vent'anni che non lavora..."
"Lei cosa faceva?" interruppe quasi interessato Tonno.
Triglia interpretò il lieve interessamento con esagerato ottimismo e si buttò nella spiegazione.
"Mah.. Lei aveva iniziato come segretaria di suo padre prima di finire gli studi, poi aveva lavorato nello studio di un cugino di sua madre che era avvocato e poi era entrata in Bontanelli"
Tonno si mantenne immobile; non voleva che dal suo volto trapelasse il senso di miseria che gli dava un amore sbocciato sul luogo di lavoro. Dal canto suo Triglia non lo guardò neanche e proseguì.
"Ha continuato per un po' dopo la nascita di Antonio, ma quando é nata Caterina ha dovuto smettere..."
Tonno aspettò un silenzio regolamentare e poi, non volendo perdere un argomento di conversazione faticosamente raggiunto, chiese "E ha trovato qualcosa?... Qualche idea?"
"Mah... c'è un collega che ha un parente Dottore che sta cercando una segretaria-infermiera. Lei dice che non sa, che questa cosa dell'infermiera un po' la spaventa..." silenzio " io le ho detto di vedere prima, e di vedere se trova qualcosa anche lei..."
"E perché la spaventa questa cosa dell'infermiera? Mica deve operare! Io non ho mai visto un'infermiera di studio medico capace di mettere un cerotto!" cercò di scherzare Tonno.
"E quello che le ho detto anch'io, ma lei dice che non sa, che le malattie... boh!"
"E questo dottore che dottore è?"
"Otorino... credo. Sissì otorino!"
"Mai visto un otorino con pazienti sanguinanti o robe del genere" sentenziò Tonno anelando ad una complicità di fronte al fatto.
"Ma quando mai hai visto un dottore tu?" ribatté Triglia negandogliela e aggiungendo un poco di invidia malcelata.
Tonno pensò con tutta la velocità che la levataccia gli permetteva; si arrese. "Ma... si fa per dire" e aggiunse un liberatorio "Vado in bagno un attimo e si va"
Triglia lo seguì con il solito inespressivo sguardo fino alla porta della cucina, poi disse "Va bene"
Il bagno era quasi ordinato.
Tonno si guardò un attimo in giro, poi fissò i suoi occhi nell'immagine riflessa dallo specchio.
50 anni, cristo! Pensò senza molta convinzione, rendendosi conto dell'esagerata retorica che esprimevano queste parole.
Meccanicamente aprì l'armadietto e prese le sigarette, si accorse di averne accesa una alla terza boccata.
Iniziò a far correre l'acqua calda e prese il Bic che sembrava meno usato. Si rasò e si lavò le ascelle.
Finito con le ascelle si guardò nello specchio un'altra volta: che faccia! Si spruzzò un po' di acqua fredda sul volto e ad occhi chiusi cercò l'asciugamano e lo frizionò sulla faccia.
Uscì dal bagno. Triglia era in salotto a leggere un periodico. Aveva accumulato sul tavolino quelli che prima erano sparsi per terra.
Si vestì in fretta.
"Andiamo?" disse passando per il salotto.
"Pronti" si alzò Triglia.
Uscirono in una mattina primaverile abbastanza fredda. Il sole non scaldava molto e Tonno notò che Triglia aveva l'impermeabile. Lui no.
La prassi era la solita. Si camminava fino alla stazione delle ferrovie locali, si prendeva il treno che andava al nord, alla terza stazione si scendeva e si proseguiva a piedi fino al pensionato dove viveva sua madre.
Niente di nuovo sotto il sole. Si accese la seconda sigaretta della giornata.
All'angolo della via li fermò un vecchio Calamaro.
"Perdonino, loro sono di queste parti?"
"Si" rispose Tonno "Mi dica"
"Saprebbero indicarmi la casa dell'ingegner Tonno?"
Tonno lo guardò con una inespressività che rasentava quella di Triglia "Sono io l'ingegner Tonno, mi dica"
Il vecchio Calamaro lo studiò per un attimo con occhi cattivi, poi gli si buttò addosso "Disgraziato!! Farabutto!! Delinquente!! Maledetto!!"
Tonno reagì allo scontro con una prontezza che in altri momenti lo avrebbe sorpreso; ma il Calamaro, pur essendo vecchio, era ancora forte e gli impediva di divincolarsi.
"Ma cosa fa?!?" intervenne Triglia "Lo lasci in pace!!" e afferrò il vecchio da dietro.
Questi non lo sentì e non si accorse di lui "Bastardo!! Disgraziato!!" continuava.
Faticosamente, in due, riuscirono a immobilizzare il vecchio che, peraltro, continuava a insultarlo.
Tonno, passato il primo shock, lo guardava cercando di capire chi era, mentre Triglia questionava "Ma cosa vuole?! Ma chi è lei!?"
Niente, il Calamaro non aveva occhi e orecchie che per Tonno.
"Si calmi!!" insisteva Triglia "Faccia il piacere, che ci guardano!!" In effetti la gente che passava si fermava ad osservare la scena.
"Ma lo conosci?!?" gli chiese Triglia.
Tonno trasalì alla domanda. "No!"
"Ah non mi conosci?! NON MI CONOSCI!! Ma adesso mi faccio conoscere!!" ribatté il vecchio "Vieni se hai coraggio!!"
Arrivò un vigile "Che cos'è che succede?!?"
Il vecchio si calmò e Triglia lo lasciò per parlare al vigile.
"Ma non so! Questo qui si è messo a gridare, a spingere... non so io!!"
"Cos'è che vuole lei?!" chiese il vigile al Calamaro.
"Niente!! Niente voglio!!" rispose irato questo "Non voglio niente!!"
"Ma come niente!!" gridò Triglia "Si mette a gridare e poi non vuole niente!! Ma chi è!?"
"Favorisca i documenti" intervenne il vigile.
Il Calamaro pescò i documenti da una tasca della giacca, non smettendo di guardare Tonno negli occhi. Abbassò lo sguardo solo per cercare nel portafogli.
Tonno lo osservava di ricambio. Il vecchio aveva un aspetto povero ma dignitoso, non da vagabondo. Nella lotta aveva speso molto, adesso ansimava. Anche Tonno e Triglia ansimavano.
Il vigile osservava i documenti "Si può sapere perché ha aggredito i signori?" chiese.
"Lo so io perché!" rispose il vecchio. Gli occhiali gli si erano appannati e, adesso, aveva un aspetto ridicolo, quasi penoso.
"Lei lo conosce?" chiese il vigile a Triglia. "Io?! Io no!! E tu?" rivolgendosi a Tonno.
"No"
Il vigile ritornò al vecchio "Allora, mi dice cosa succede?"
"E a lei che gliene frega!!" rispose rabbioso questo, staccando gli occhi da Tonno per un attimo.
"Va bene, allora venga con me alla centrale" disse tranquillo il vigile afferrando il Calamaro per un braccio.
"No!" disse Tonno "Lo lasci stare"
Triglia e il vigile si guardarono. Poi il vigile tornò a Tonno.
"Lo lasci stare, noi ce ne andiamo" e si incamminò.
"Adesso ti conosco!" gridò, ansimante, il vecchio "So chi sei!!"
Tonno non si voltò.
Dopo un 200 metri lo raggiunse Triglia "Ma lo conosci?"
"No" rispose.
"Roba da matti! Ma perché l'hai lasciato andare?!"
"E' solo un vecchio matto, non m'ha fatto niente"
"Vecchio matto!! Quello ti cercava!"
"Ma va!! Avrà letto il nome sul campanello! Sarà uno di quei vecchietti soli un po' maniaci!"
Il Triglia tacque.
"Stai bene?" chiese Tonno.
"Si... tu?"
"Bene, bene" si strofinò le mani "Solo freddo"
La conversazione tacque fino alla stazione, e riprese solo quando il treno si mise in moto. Fu il Triglia.
"Pazzesco!!" esclamò guardando Tonno, "Ma davvero non lo conosci?"
Tonno, che stava rimuginando sul fatto, decise di assumere un'aria distaccata "Chi?"
"Come chi!?" sbraitò Triglia, "Il vecchio!! Il vecchio pazzo!!"
"Aaah... ...il vecchio" sorrise l'altro, "No, non lo conosco"
"Forse..." si buttò a investigare il Triglia "Forse un cliente, o la vittima di qualche tua perizia" sorrise maliziosamente.
Tonno si sentì infastidito da quella che, indubbiamente, era una pista possibile se non probabile. Infastidito dal tono di Triglia e dal fatto che lui non avesse pensato a questa verosimile ipotesi.
"No" rispose mentendo meccanicamente "Non lo avevo mai visto prima" e iniziò a scandagliare la mente in cerca di un volto perlomeno simile a quello del vecchio.
Triglia non si dette per vinto.
"Sicuro è qualcuno a cui hai bloccato un progetto" sorrise pensoso "O forse il padre... ...era vecchio eh?"
"Si... ...vecchio ma forte" ammise Tonno.
La puntualizzazione fece ridere Triglia "Cazzo se era forte!! In due non riuscivamo a fermarlo!!"
Tonno sorrise, e il Triglia continuò.
"Era un sacco di tempo che non facevo a botte!" rifletté pensoso.
"L'ultima volta è stato con Antonio, per scherzo, quando aveva quindici anni" riprese "Passa il tempo!"
Per un attimo, per un attimo soltanto, Tonno riuscì ad astrarsi dalla vita reale e ad osservare lui e quel suo lontano, non solo carnalmente, cugino.
Quel fatto bizzarro lo aveva messo di fronte all'ennesima prova dell'inconsistenza della sua vita e alla solidità ignobile di quella di Triglia: tutta la scena si era svolta dinnanzi alla sua apatia trasecolante e alla concreta razionalità del cugino.
Forse per questo sentiva di non amarlo neanche un poco.

lunedì 6 gennaio 2020

Supernova

La ragazza aprì la porta della stanza, poi ritornò in corridoio per prendere secchio e scopa di stracci, portandoli dentro.
Non fece caso al ronzio delle apparecchiature e al ritmico “bip” che accompagnava il led quando si accendeva, erano due anni che lavorava nella clinica e ormai non si impressionava più.
La luce del sole, una bella giornata nonostante il freddo di gennaio, si rifletteva sulle pareti bianche e sulle lenzuola che coprivano l’uomo nel letto.
Iniziò a passare, lentamente, la scopa sul pavimento.
La sedia in metallo, colpita dal bastone della scopa, si spostò, stridendo sul linoleum del pavimento.
L’uomo emise un gemito.
“Mi scusi” sussurrò la ragazza senza alzare la testa, ma l’uomo non rispose.
Lei continuò a pulire, facendo più attenzione a non disturbare il sonno dell’altro.
Mentre puliva lo guardò brevemente, solo un istante per accertarsi che non si fosse svegliato.
Era un vecchio, molto malato, a giudicare dai tubi e i fili che lo collegavano alle macchine intorno al letto; la testa, con la bocca semi aperta a respirare, era rivolta verso la finestra.
Finì il lavoro e, sempre silenziosamente, afferrò il secchio.
“Senti…”
Si fermò, il vecchio le aveva parlato, senza muovere la testa.
Non le piaceva quando i malati le parlavano, erano sempre seccature: richieste per cose che lei non doveva o non poteva fare, una volta il dottore l’aveva sgridata per questo, oppure, peggio, interminabili racconti su perché erano lì, cosa facevano, le famiglie e le assenze attorno a loro. O i piani per il futuro! Si, erano vecchi e malati ma avevano piani per il futuro…
“Si?” rispose la ragazza, perché la porta della stanza era troppo lontana per uscirsene e non poteva fingere di non aver sentito.
“Come… come ti chiami?” Chiese il vecchio.
“Adenike”
Lentamente l’uomo ruotò la testa verso di lei. Ad occhi chiusi.
“Da dove vieni?”
“Burkina Faso”, rispose lei.
Il vecchio, sempre senza aprire gli occhi, parve riflettere.
“L’Alto Volta…”
“No.” rispose, forse un po’ troppo duramente, Adenike. “Il Burkina Faso” ripeté. Non le piaceva il nome europeo del suo paese, le ricordava troppo le storie che sua nonna le aveva raccontato, storie tristi.
Il vecchio la sorprese.
“Scusa.” disse e poi sorrise.
“Sono vecchio, e la mia memoria è più vecchia di me.”
Calò un silenzio, che Adenike colse come un’opportunità.
“Devo andare.” disse, “Buona giornata.”
L’uomo aprì gli occhi e la guardò.
“No!” quasi un urlo, se non fosse stato per la voce debole.
Adenike lo prese come un urlo lo stesso, e si bloccò. Imbarazzata
L’uomo colse l’imbarazzo nel volto della donna, le sorrise.
“Devi fare una cosa per me.”
Adenike aveva imparato, col tempo, come rispondere a queste richieste.
“Va bene, chiamo l’infermiera, è qua in repar…”
“No.” l’uomo scosse il capo, “È una cosa che puoi fare solo tu.”
La ragazza sentì le parole e il problema avvicinarsi. Lei non voleva problemi.
“Io, io non sono autorizzata a…” cominciò la litania che le aveva spiegato l’altra ragazza, quella della Nigeria. “Devi rispondere così, così capiscono e non ti rompono più” le aveva detto.
L’uomo la fermò, con un gesto della mano, tremante ma ferma allo stesso tempo.
“Per quello che devi fare non serve autorizzazione, perché nessuno te la darà…”
La ragazza strinse il bastone della scopa.
“Quel bottone, quello nero…” l’uomo puntò il capo verso una delle macchine accanto al letto.
Adenike seguì lo sguardo dell’uomo, era la macchina che emetteva il “bip” ad ogni bagliore del led.
“Spegnila.” aggiunse il vecchio.
La mano di Adenike si strinse ancora di più al bastone, le nocche si imbiancarono. Sapeva cosa significasse spegnere quella macchina.
“No!” disse, “Mi cacceranno, o… o peggio!”
“Non ti preoccupare, spegnila per poco, poi…“, il vecchio le sorrise, “Poi la riaccenderai, nessuno se ne accorgerà.”
“Perché?” chiese la ragazza, spaventata.
“Quanti anni hai Adenike?”
“Trentasei.”
L’uomo, a fatica, alzò la testa dal cuscino, sorreggendosi sul busto con bracci scheletriche.
“Io ne ho quasi tre volte tanti.”
“Complimenti!” sorrise Adenike.
Anche il vecchio sorrise, ma scuotendo la testa.
“No, figlia mia, non c’è da complimentarsi: i miei anni non sono tanti, sono troppi.”
“Al mio Paese no, mia nonna ha vissuto quasi ottant’anni ed er…”
Il vecchio la interruppe, “E poi?”
Adenike abbassò lo sguardo, “E poi è morta…”
L’uomo, stanco, si riadagiò sul cuscino.
“Vedi?” disse, “Questo è giusto…”
Adenike, pensando alla mattina che aveva cercato di svegliare la nonna, si commosse; e si arrabbiò.
“Cosa è giusto?!” sibilò, offesa. Ma senza alzare la voce, ormai aveva imparato.
L’uomo chiuse gli occhi, scuotendo il capo.
“Scusa” sorrise, “Non è giusto che sia morta tua nonna… è giusto morire, per tutti.”
La ragazza si calmò, guardò il letto, il vecchio e i tubi che lo collegavano alle macchine.
“E tu vuoi morire?” Chiese, “Perché?”
“Io ero, per qualcuno forse sono ancora, un astrofisico.” si fermò e guardò la donna, “Sai cosa vuol dire?”
Adenike annuì “Studi le stelle.”
“Brava!” Esclamò l’altro, “Hai studiato?”
Adenike sorrise.
“Scusa” disse il vecchio.
“Mi piace leggere” rispose la ragazza, quasi per togliere d’impaccio l’uomo.
“E allora, se ti piace leggere, avrai letto che anche le stelle muoiono, che si spengono, e che l’universo vive anche di queste morti.”
“Si.”
“E ti rendi conto che, invece, noi, gli esseri umani, anzi, scusa ancora, una parte specifica degli esseri umani, non vogliamo più morire!? Non ci lasciano più morire!?”
“Cosa vuol dire?” Chiese Adenike.
L’uomo aprì gli occhi, fissando il soffitto.
“Che ci siamo condannati a sconfiggere la morte, a vivere vite eterne che non hanno nessun senso. Che abbiamo scusato questo modo di fare con la pietà, con l’amore, e non abbiamo capito che l’amore più grande è quello che abbiamo negato alla natura.”
“Perché?”
“Perché, ragazza mia, la natura ha i suoi cicli, di vita e di morte, come nelle stelle. Noi, convinti dalla nostra scienza, li abbiamo stravolti inseguendo l’immortalità di esseri che teniamo in vita contro tutto, nonostante tutto. E neghiamo alla natura la sua stessa essenza, la nostra essenza.”
Si interruppe, respirando pesantemente.
“La terra è un sistema chiuso, almeno per la vita sul pianeta, le nostre cellule, il nostro DNA, si mantengono nei nostri cicli.”
“Non ho capito.”
“La nostra energia vitale non muore mai, si rinnova, le cellule che una volta erano nel corpo di Einstein, o di Leopardi, sono ancora in noi, disperse in ognuno di noi, a cominciare da quelle di tua nonna e da quelle dell’antenata di tua nonna da cui discendiamo tutti. Lo sai che siamo tutti un po’ africani, vero?”
Adenike annuì, sorridendo.
“E questo è giusto, questa è la natura. Ora invece noi facciamo di tutto per impedirlo, tenendo in vita sacchi di ossa e pelle che pesano come macigni sulle schiene del resto dell’umanità, di quelli che non possono invecchiare.”
Voltò il capo verso Adenike.
“Tu vieni dal Burkina Faso, sai cosa voglio dire.”
Adenike abbassò gli occhi e annuì.
“Sai chi era Einstein?”
“Si.”
“E Leopardi?”
“No.”
“Ecco, vedi? La scienza vince sulla poesia, anche tra i morti.”
Adenike ridacchiò. Poi si fece seria.
“Tu vuoi morire e non pensi a chi lasci. Loro soffriranno.”
Il vecchio scosse la testa, quasi vigorosamente.
“Il mio professore, all’università, è morto nel suo letto quando aveva settant’anni; suo padre, che era un fisico, morì che ne aveva sessantuno, e non c’era niente di sbagliato in questo. E me li ricordo ancora, con affetto, ma non sento la loro mancanza. Perché è stato bello conoscerli ed è stato giusto lasciarli.”
Tossì.
“Io, invece, ieri ho sentito mia nipote, perché non ho più figli, ormai ho solo nipoti, parlare con il dottore, e dirgli che sono ancora lucido, come se fosse una ragione per continuare a farmi vivere.”
“Ma tu non vuoi vivere così.” aggiunse Adenike, indicando le macchine attorno al letto con il viso.
“No, Adenike, non è per le macchine a cui sono attaccato. Stephen Hawking ha vissuto tutta la sua vita grazie alle macchine perché era malato, ed è stato bello che potesse insegnarci tante cose, e grazie alla scienza è stato curato. Ma questa non è una cura, o meglio, è una cura per una delle tante malattie che ci siamo inventati e che hanno un solo nome: vecchiaia.”
Girò il capo verso la finestra.
“Ma io non voglio più vivere e basta; voglio ritornare alla natura, spezzare questa condanna a vita, e sperare che quello che è rimasto della mia energia si spanda per tutto l’universo, a creare altro.”
La ragazza appoggiò la scopa al muro e si avvicinò alla macchina che teneva in vita l’uomo.
“Come una supernova.” disse, spingendo il pulsante nero.
Il vecchio le sorrise e chiuse gli occhi.