lunedì 6 gennaio 2020

Supernova

La ragazza aprì la porta della stanza, poi ritornò in corridoio per prendere secchio e scopa di stracci, portandoli dentro.
Non fece caso al ronzio delle apparecchiature e al ritmico “bip” che accompagnava il led quando si accendeva, erano due anni che lavorava nella clinica e ormai non si impressionava più.
La luce del sole, una bella giornata nonostante il freddo di gennaio, si rifletteva sulle pareti bianche e sulle lenzuola che coprivano l’uomo nel letto.
Iniziò a passare, lentamente, la scopa sul pavimento.
La sedia in metallo, colpita dal bastone della scopa, si spostò, stridendo sul linoleum del pavimento.
L’uomo emise un gemito.
“Mi scusi” sussurrò la ragazza senza alzare la testa, ma l’uomo non rispose.
Lei continuò a pulire, facendo più attenzione a non disturbare il sonno dell’altro.
Mentre puliva lo guardò brevemente, solo un istante per accertarsi che non si fosse svegliato.
Era un vecchio, molto malato, a giudicare dai tubi e i fili che lo collegavano alle macchine intorno al letto; la testa, con la bocca semi aperta a respirare, era rivolta verso la finestra.
Finì il lavoro e, sempre silenziosamente, afferrò il secchio.
“Senti…”
Si fermò, il vecchio le aveva parlato, senza muovere la testa.
Non le piaceva quando i malati le parlavano, erano sempre seccature: richieste per cose che lei non doveva o non poteva fare, una volta il dottore l’aveva sgridata per questo, oppure, peggio, interminabili racconti su perché erano lì, cosa facevano, le famiglie e le assenze attorno a loro. O i piani per il futuro! Si, erano vecchi e malati ma avevano piani per il futuro…
“Si?” rispose la ragazza, perché la porta della stanza era troppo lontana per uscirsene e non poteva fingere di non aver sentito.
“Come… come ti chiami?” Chiese il vecchio.
“Adenike”
Lentamente l’uomo ruotò la testa verso di lei. Ad occhi chiusi.
“Da dove vieni?”
“Burkina Faso”, rispose lei.
Il vecchio, sempre senza aprire gli occhi, parve riflettere.
“L’Alto Volta…”
“No.” rispose, forse un po’ troppo duramente, Adenike. “Il Burkina Faso” ripeté. Non le piaceva il nome europeo del suo paese, le ricordava troppo le storie che sua nonna le aveva raccontato, storie tristi.
Il vecchio la sorprese.
“Scusa.” disse e poi sorrise.
“Sono vecchio, e la mia memoria è più vecchia di me.”
Calò un silenzio, che Adenike colse come un’opportunità.
“Devo andare.” disse, “Buona giornata.”
L’uomo aprì gli occhi e la guardò.
“No!” quasi un urlo, se non fosse stato per la voce debole.
Adenike lo prese come un urlo lo stesso, e si bloccò. Imbarazzata
L’uomo colse l’imbarazzo nel volto della donna, le sorrise.
“Devi fare una cosa per me.”
Adenike aveva imparato, col tempo, come rispondere a queste richieste.
“Va bene, chiamo l’infermiera, è qua in repar…”
“No.” l’uomo scosse il capo, “È una cosa che puoi fare solo tu.”
La ragazza sentì le parole e il problema avvicinarsi. Lei non voleva problemi.
“Io, io non sono autorizzata a…” cominciò la litania che le aveva spiegato l’altra ragazza, quella della Nigeria. “Devi rispondere così, così capiscono e non ti rompono più” le aveva detto.
L’uomo la fermò, con un gesto della mano, tremante ma ferma allo stesso tempo.
“Per quello che devi fare non serve autorizzazione, perché nessuno te la darà…”
La ragazza strinse il bastone della scopa.
“Quel bottone, quello nero…” l’uomo puntò il capo verso una delle macchine accanto al letto.
Adenike seguì lo sguardo dell’uomo, era la macchina che emetteva il “bip” ad ogni bagliore del led.
“Spegnila.” aggiunse il vecchio.
La mano di Adenike si strinse ancora di più al bastone, le nocche si imbiancarono. Sapeva cosa significasse spegnere quella macchina.
“No!” disse, “Mi cacceranno, o… o peggio!”
“Non ti preoccupare, spegnila per poco, poi…“, il vecchio le sorrise, “Poi la riaccenderai, nessuno se ne accorgerà.”
“Perché?” chiese la ragazza, spaventata.
“Quanti anni hai Adenike?”
“Trentasei.”
L’uomo, a fatica, alzò la testa dal cuscino, sorreggendosi sul busto con bracci scheletriche.
“Io ne ho quasi tre volte tanti.”
“Complimenti!” sorrise Adenike.
Anche il vecchio sorrise, ma scuotendo la testa.
“No, figlia mia, non c’è da complimentarsi: i miei anni non sono tanti, sono troppi.”
“Al mio Paese no, mia nonna ha vissuto quasi ottant’anni ed er…”
Il vecchio la interruppe, “E poi?”
Adenike abbassò lo sguardo, “E poi è morta…”
L’uomo, stanco, si riadagiò sul cuscino.
“Vedi?” disse, “Questo è giusto…”
Adenike, pensando alla mattina che aveva cercato di svegliare la nonna, si commosse; e si arrabbiò.
“Cosa è giusto?!” sibilò, offesa. Ma senza alzare la voce, ormai aveva imparato.
L’uomo chiuse gli occhi, scuotendo il capo.
“Scusa” sorrise, “Non è giusto che sia morta tua nonna… è giusto morire, per tutti.”
La ragazza si calmò, guardò il letto, il vecchio e i tubi che lo collegavano alle macchine.
“E tu vuoi morire?” Chiese, “Perché?”
“Io ero, per qualcuno forse sono ancora, un astrofisico.” si fermò e guardò la donna, “Sai cosa vuol dire?”
Adenike annuì “Studi le stelle.”
“Brava!” Esclamò l’altro, “Hai studiato?”
Adenike sorrise.
“Scusa” disse il vecchio.
“Mi piace leggere” rispose la ragazza, quasi per togliere d’impaccio l’uomo.
“E allora, se ti piace leggere, avrai letto che anche le stelle muoiono, che si spengono, e che l’universo vive anche di queste morti.”
“Si.”
“E ti rendi conto che, invece, noi, gli esseri umani, anzi, scusa ancora, una parte specifica degli esseri umani, non vogliamo più morire!? Non ci lasciano più morire!?”
“Cosa vuol dire?” Chiese Adenike.
L’uomo aprì gli occhi, fissando il soffitto.
“Che ci siamo condannati a sconfiggere la morte, a vivere vite eterne che non hanno nessun senso. Che abbiamo scusato questo modo di fare con la pietà, con l’amore, e non abbiamo capito che l’amore più grande è quello che abbiamo negato alla natura.”
“Perché?”
“Perché, ragazza mia, la natura ha i suoi cicli, di vita e di morte, come nelle stelle. Noi, convinti dalla nostra scienza, li abbiamo stravolti inseguendo l’immortalità di esseri che teniamo in vita contro tutto, nonostante tutto. E neghiamo alla natura la sua stessa essenza, la nostra essenza.”
Si interruppe, respirando pesantemente.
“La terra è un sistema chiuso, almeno per la vita sul pianeta, le nostre cellule, il nostro DNA, si mantengono nei nostri cicli.”
“Non ho capito.”
“La nostra energia vitale non muore mai, si rinnova, le cellule che una volta erano nel corpo di Einstein, o di Leopardi, sono ancora in noi, disperse in ognuno di noi, a cominciare da quelle di tua nonna e da quelle dell’antenata di tua nonna da cui discendiamo tutti. Lo sai che siamo tutti un po’ africani, vero?”
Adenike annuì, sorridendo.
“E questo è giusto, questa è la natura. Ora invece noi facciamo di tutto per impedirlo, tenendo in vita sacchi di ossa e pelle che pesano come macigni sulle schiene del resto dell’umanità, di quelli che non possono invecchiare.”
Voltò il capo verso Adenike.
“Tu vieni dal Burkina Faso, sai cosa voglio dire.”
Adenike abbassò gli occhi e annuì.
“Sai chi era Einstein?”
“Si.”
“E Leopardi?”
“No.”
“Ecco, vedi? La scienza vince sulla poesia, anche tra i morti.”
Adenike ridacchiò. Poi si fece seria.
“Tu vuoi morire e non pensi a chi lasci. Loro soffriranno.”
Il vecchio scosse la testa, quasi vigorosamente.
“Il mio professore, all’università, è morto nel suo letto quando aveva settant’anni; suo padre, che era un fisico, morì che ne aveva sessantuno, e non c’era niente di sbagliato in questo. E me li ricordo ancora, con affetto, ma non sento la loro mancanza. Perché è stato bello conoscerli ed è stato giusto lasciarli.”
Tossì.
“Io, invece, ieri ho sentito mia nipote, perché non ho più figli, ormai ho solo nipoti, parlare con il dottore, e dirgli che sono ancora lucido, come se fosse una ragione per continuare a farmi vivere.”
“Ma tu non vuoi vivere così.” aggiunse Adenike, indicando le macchine attorno al letto con il viso.
“No, Adenike, non è per le macchine a cui sono attaccato. Stephen Hawking ha vissuto tutta la sua vita grazie alle macchine perché era malato, ed è stato bello che potesse insegnarci tante cose, e grazie alla scienza è stato curato. Ma questa non è una cura, o meglio, è una cura per una delle tante malattie che ci siamo inventati e che hanno un solo nome: vecchiaia.”
Girò il capo verso la finestra.
“Ma io non voglio più vivere e basta; voglio ritornare alla natura, spezzare questa condanna a vita, e sperare che quello che è rimasto della mia energia si spanda per tutto l’universo, a creare altro.”
La ragazza appoggiò la scopa al muro e si avvicinò alla macchina che teneva in vita l’uomo.
“Come una supernova.” disse, spingendo il pulsante nero.
Il vecchio le sorrise e chiuse gli occhi.

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