mercoledì 15 maggio 2013

Tutt'una vita.


Allora è vero.
Ho sempre pensato che quella storia di vederti passare davanti tutta la vita nei momenti difficili fosse una balla, e invece.
Ho subito pensato a mio nonno, ai suoi baffi che sapevano di toscano bruciacchiato quando mi baciava.
Non che abbia molti altri ricordi: è morto che io ero ancora bambino. Ma ho rivisto la sua sciabola appesa al muro del salotto, e la nonna che ogni tanto la accarezzava commossa.
Uomo d'altri tempi, rispettato anche quando non era in divisa e girava per il paese. Gli bastava un'occhiata per controllare persone, far riflettere malintenzionati e tacitare sediziosi.
Un rispetto guadagnato sul campo, anzi in cantina. Quella dove l'avevano buttato i tedeschi quando si presentò a richiedere la liberazione dei compaesani arrestati per rappresaglia.
Da solo, perché aveva convinto il medico condotto a restarsene a casa, ché ci sarebbe stato bisogno di lui.
Li liberarono, ma si tennero il nonno per due settimane.
Non parlò, neanche dopo, e tutto il paese fu accompagnato dal suo silenzio fino alla liberazione.
Non raccontò a nessuno cosa era successo, cosa gli avevano fatto, neanche alla nonna, piangente.
Le disse solo, anni dopo, che certe cose non andavano raccontate, se si voleva continuare ad avere rispetto degli esseri umani.
Al funerale il Comando mandò un plotone in alta uniforme, e il maresciallo capo appuntò la medaglia alla nonna, che non pianse.
La mamma sì, e il paese si strinse intorno a lei e a me.
Il papà, il giorno del funerale, arrivò in ritardo perché aveva dovuto gestire una pratica in Comune. E i due che lo avevano fatto ritardare vennero additati per mesi, con sdegno.
Ma il nonno avrebbe capito, diceva papà. E anche la mamma annuiva.
Io, per questo, per queste storie, non ho mai avuto dubbi e, appena diplomato, ho fatto domanda.
Mi hanno accolto a braccia aperte, ma senza facilitarmi la vita, in ricordo del nonno.
Sono stati anni duri, sbattuto lontano di casa con il solo conforto dell'orgoglio negli occhi della mamma, quando ci riusciva di vederci.
Anche il papà era contento, e compensava in questo l'allontanamento dai suoi compiti per "scarsa flessibilità" come gli aveva detto il nuovo sindaco, nuovo in tutto.
Ho vissuto quegli anni in grande dilemma, sbeffeggiato dai coetanei che dileggiavano la mia scelta, che raccontavano le barzellette per poi zittirsi di colpo al mio arrivo, che cercavano di convincermi che esistevano alternative al "sistema". Ma io tenevo duro. E imparavo.
Anche al di là dei corsi di addestramento e perfezionamento, nelle missioni pesanti e nei compiti di routine: noiosi e difficili.
Ho avuto spesso paura, fino a quando la nonna, che mi aveva chiamato al paese perché stava morendo, mi lasciò la sciabola del nonno confidandomi che, dei due, chi aveva avuto sempre più timori era stato suo marito.
Che però non se ne vergognava perché, diceva, "a fare il mio mestiere senza avere paura si rischia di fare qualche stupidata."
E così ho affrontato le ronde, i rastrellamenti, i presidi ed i posti di blocco, anche in anni difficili, dove la divisa diventava un bersaglio.
Sono stato bravo, me la sono cavata e mi hanno fatto crescere.
Ho tenuto duro anche quando dovevo mandare giù amaro, quando mi hanno opposto a gente che, secondo me, non aveva tutti i torti.
Ce ne dicevano di tutti i colori, oppure ci compativano, mandati lì in divisa ad opporci ai nostri stessi interessi, per conto di qualcuno che non vuole neanche farsi vedere, nascosto da noi.
Ma gli ordini sono ordini, cavolo, se no, dove andiamo a finire?
E via, a salire.
Prima le lingue, ma in quelle ero bravo.
Poi le tecniche: autodifesa, valutazione dell'intervento, analisi comportamentali, teorie politiche e sigle, che cambiavano sempre ma avevano tutte lo stesso significato, per noi almeno.
E la gerarchia, sempre da rispettare anche quando era ottusa, come minimo, se non offensiva o peggio.
Per fortuna sono arrivati anche gli scatti, gli avanzamenti.
E la possibilità di farsi una famiglia, finalmente.
Poi i lavori più noiosi: tanto ufficio, poca stazione.
E le grane, i dossier da non leggere e quelli da dimenticare. Le minacce velate e quelle chiare e tonde.
E i trasferimenti, per compiti sempre più importanti. Rovigo, Venezia, Milano, Catania e ora Roma.
Tutte le ho viste: banditismo, industria, antimafia e ora le scorte.
A tutti: dai giornalisti invisi a molti ai politici, invisi a tutti, sembrerebbe.
Questo qui è solo l'ultimo di una lunga serie. Tutti uguali.
Ci chiama "i miei ragazzi" e c'ha meno anni di me.
Ci parla con piglio cameratesco, tipo che è stato in servizio con noi.
Manco il militare ha fatto, Donnarumma ha controllato.
Lavoratore all'estero.
A Lugano, così la mamma non stava in apprensione. Nella finanziaria degli amici di papà, con appartamento sul lungo lago.
Mica come Arrigoni, che per far fronte al secondo figlio ha richiesto il turno in Kossovo e a momenti ci rimaneva. Lui se l'é cavata, ma gli altri tre del blindato no. Lavoratori all'estero.
E questo, a momenti, per tornare a trovare gli amici di Lugano, ci fa sbattere tutti in galera dagli svizzeri!
Noi a dirgli che non ci facevano passare, così, armati. Ma lui a insistere, con la sua vocetta da ragazzo viziato. "Mi conoscono!" diceva, "ci faranno passare senza problemi…"
E' finita che gli svizzeri, quasi più imbarazzati di noi, ci hanno almeno offerto il caffè, in caserma a Chiasso. A lui no. Che figura di merda.
Lo seguiamo ovunque, anche dove non ci piace stare. E lo vediamo, con certa gente che ci piacerebbe controllare. E segnaliamo. Ma ci dicono che, per riserbo sull'attività parlamentare, non serve a niente. Però noi segnaliamo.
Si suda, sempre all'erta. A respingere giornalisti sgraditi (c'ha fatto pure la lista con le foto, il previdente!) e questuanti poco importanti.
Pure nelle interviste ci fa schierare, così da casa vedono quantʼè importante. E se il giornalista è di quelli scomodi fa pure la scena di guardarsi attorno, come fosse in pericolo ogni momento che lo fermano per strada.
Invece non si ferma mai, questo bisogna riconoscerglielo: sempre in giro a stringer mani e a fare promesse. I "bagni di folla" poi!
Quelli da far passare li riconosciamo subito, ormai; ci siamo imparati il tipo.
Sorridono già da lontano, come se non aspettassero altro dalla vita.
Portano buste, pacchi, spesso accompagnati da ragazze sorridenti anche loro.
Certe facce le riconosciamo, ma facciamo finta di niente.
O almeno ci proviamo.
Ad Anagni Ricotti è stato avvicinato da una giornalista, senza microfono o telecamera, ma la stronza ce lʼaveva in borsetta.
Eʼ successo un casino.
A me, capo scorta, mʼhanno tenuto tre ore in caserma, cʼera pure il generale.
Poi è arrivato uno, in borghese, secondo me dei servizi.
Mʼha fatto raccontare tutto per la quarta volta, poi sʼè messo a ridere.
“Non ti preoccupare”, mi ha detto, “quello lì non conta un cazzo, ha solo fatto un poʼ di piagnisteo ma tanto lo sa che cʼabbiamo un dossier così su di lui…”
Mʼha offerto una sigaretta e se lʼè fumata, rassicurando pure il generale.
Poi, andandosene, mʼha preso da parte.
“Continua tranquillo, le vostre segnalazioni le leggiamo, ma a uno così non gli succederà mai niente.”
E così abbiamo perso Ricotti; lʼhanno trasferito a un lavoro di merda, e questo continua a chiamarci “i suoi ragazzi”.
E continua a farsi vedere in giro: incurante delle figure di merda e dei sorrisi sempre uguali su volti sempre diversi.
Questo volto, invece, è la quarta volta che lo vedo.
Era già in piazza lʼaltro ieri, e prima al teatro e al comizio.
Sempre con la solita faccia, spiritata.
Lo sguardo fisso sul nostro uomo, non lo perde un attimo.
E gli stessi vestiti.
Solo che questa volta sotto il maglione c'ha il bozzo. Si vede.
Minimo minimo una 7.65.
E adesso, che tutta la vita m'è passata davanti agli occhi, che faccio?
Lo fermo?