martedì 7 luglio 2020

Senza fallo

Ieri l'ho estratto dalla scatola e l'ho guardato.
Ha sempre la sua strana consistenza, solo il lattice sembra un po' crepato qua e là.
Eravamo andati a comprarlo io e Renato, fieri della nostra intraprendenza scema.
Il commesso, forse il padrone, tentava di indirizzare il nostro acquisto verso l'esemplare che meglio poteva soddisfare le nostre esigenze; o esperienze - come diceva lui – guidando con nordica asetticità l'acquisto di uno stupidissimo cazzo di gomma, come lo chiamavamo noi, o fallo in lattice, come lo chiamava lui.

Renato, da solito bastardo (e quanto era bastardo) col suo gusto morboso per l'imbarazzo si faceva spiegare e si dichiarava interessato a valutare le diverse "esperienze".
Che l'altro elencava con il trasporto di un registratore di cassa.
Poi via in macchina, la mia mano sul suo pacco e la sua tra le mie cosce, tra una cambiata e l'altra nel traffico di Milano.
A casa, scartato il "fallo" come ironizzava Renato, l'avremo usato per poco prima di finire a scopare nel solito impeccabile e noiosissimo modo, alla Renato per intenderci.
Un salto nella fantasia durato ben dieci minuti, un record per uno che si professava artista pazzo ed è finito nel bifamiliare a venti minuti dal Duomo con i figli dalle suore.

Poi più nulla, fino alla grande re-entrée con Alain, i suoi riccioli e le sue angosce.
Una sodomizzazione lenta, piacevole e - secondo me - non completamente ignota.
Mentre glielo succhiavo, per tranquillizzare la sua mascolinità, sentivo il suo corpo inarcarsi e flettersi seguendo a tempo il ritmo di quel cilindro di lattice dentro di lui.
Delusa ero delusa, non dal suo evidente piacere per qualcosa che non potevo dargli, ma dalle sue patetiche effusioni dopo, quando era chiaro a tutti e due che il suo "provare" non sarebbe finito con me.
Finite invece, nel giro di sei mesi, le sue cartoline dai posti più disparati; quelli che leggevo solo sui reportages di viaggio.
Il messaggio sempre lo stesso: "Ti penso".
Poi ha smesso di pensare.

Il cazzo di gomma, ripulito e inscatolato, 'che non si butta niente, l’ha risfoderato Francesco, con le sue lentiggini ed il suo dolce sarcasmo romano, ripescato nel trasloco nella casa nuova, la nostra casa, e subito bollato come "simbolo della decadenza degli anni settanta".
Anni in cui io andavo in autostop in Grecia e lui a Fregene dalla nonna, in culla.
Ma non me l'aveva fatto buttare via, stranamente visto che per lui tutto ciò che era mio era un retaggio di qualche cosa, e andava eliminato perchè non ne avevo più bisogno.
Il cazzo di gomma no, invece.

Il perché l'ho capito più tardi, quando sono rincasata e l'ho trovato a goderselo come un matto.
Mi ero anche eccitata, ma le sue scuse stupide ed il suo stupido imbarazzo mi avevano fatto pena.
In quel momento ho capito, ho voluto finalmente capire, la sua meschinità, da adolescente troppo sicuro di sé per esserlo veramente.
È sparito, e con lui sono spariti i piccoli furti dal mio portafoglio e i miei orecchini preferiti (ti fanno vecchia, diceva) ma è ritornata la mia posta.
.
E l'invito di Angelo alla sua piéce, nel teatro off più sconosciuto di tutta Milano.
Dal palco al letto non ha smesso di fissarmi per un solo istante.
E il cazzo di gomma ha fatto la sua parte, oh se l'ha fatta!
Poi basta, perché io ero sua e di nessun altro, neanche di uno stupidissimo cazzo di gomma.
E per svilirlo, per svilire me, era diventato il "nostro" centrotavola.
Oggetto di commenti (sempre gli stessi) da parte dei suoi amici attori.
Oggetto di imbarazzo quando gli amici erano miei, molto più prosaiche colleghe di Istituto, che rimanevano allibite nel vedere un cazzo a centrotavola, ascoltando per cortesia i belluini e quasi sempre inopportuni proclami di Angelo.
Nora, sola, osava guardarmi e castamente sorridermi.
E sempre sorridendo mi confessò che, anni prima, in collegio a Eton, anche lei ne aveva uno, soprannominato Rodolfo come il cugino che il padre le imponeva ad ogni cena, festa o serata possibile.

Fu la sera che mi confessò tutto, anche il suo amore ed il conseguente odio per Angelo, ormai perso in teatri scalcagnati dopo la notte di pianti e schiaffi.
E mi presentò Rodolfo, anche lui nella sua bella scatolina, anzi me lo introdusse, come precisò da brava maestrina.
E maestra lo fu, perchè mai due corpi furono così uniti, così pulsanti al ritmo dello stesso caldo respiro, così strettamente inseparati da un cuneo di gomma come lo furono i nostri quella notte.

La sua bocca, a pochi millimetri dalla mia, non mi sfiorò fino a quando il gemito tra le mie labbra si trasformò nel suo nome.
Nora, Nora e un'altra notte e tante altre notti ancora.
Una poesia involontaria e cercata, senza affanno ma senza tregua.
Un bacio lungo e profondo, che attraversava i corpi con una passione calda e intima.
Con i nostri capelli che diventavano una chioma unica, sui nostri occhi e sui nostri seni.
E quei simulacri di maschio, a riempire le vacuità dei nostri corpi e dei nostri uomini.

Così, da allora, ogni notte. Senza fallo.








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