Cicio Pepino era proprio un bel bambino.
Però adesso basta rima, che così finisco prima.
Dicevamo un bel bambino, una gioia per gli occhi, soprattutto
quelli del signor Giancarlo, il papà, e della mamma Orietta Munaron in Pepino.
Tanto cercato e finalmente avuto, da due genitori ormai non
più giovanissimi; lui titolare di un’avviata copisteria a Rovigo e l’Orietta
casalinga modello.
La prima infanzia di Francesco (Francesco come il nonno, ma
per tutti Cicio) era stata quella tipica del figlio unico arrivato quando ormai
le speranze si erano ridotte al lumicino; vezzeggiato e accudito come fosse il
principe della casa.
Poi, ahinoi, l’amara scoperta.
Quello che per i genitori, i nonni e persino i cugini di
Cavarzere altro non era stata che una buffa singolarità, tipica dei bambini, all'ingresso
nel mondo dell’istruzione pubblica (La 1° E della Scuola Elementare Giovanni XXIII,
in Viale Oroboni) e in seguito ai primi problemi, venne tragicamente conclamata
dal Dr. Bonvini, eminente pediatra rodigino.
Oriotesserite, malattia infame, tragica e rarissima, che
limitava le capacità di enumerazione al misero quattro.
Tra le lacrime, uscendo dallo studio Bonvini, la Signora
Orietta comprese finalmente quanto i segnali fossero stati evidenti sin dall'inizio,
quando chiedeva al Cicio quanti pezzi di Lego c’erano sotto al letto e la
riposta era “quattro e un po’ “. Oppure la risata fatta all'ultima festa di compleanno,
alla dichiarazione di quanto fosse stato bello giocare con i suoi quattro amici
e pure gli altri.
Un destino segnato. Soprattutto per il signor Giancarlo, che
già sognava in Cicio l’aiuto in copisteria che avrebbe affiancato i suoi anni
di vecchiaia: “Ma se mi entra il Rag. Scarlatti dello Studio Amoretti, e vuole
cinque copie fascicolate dei rogiti, io cosa ci dico?!?”
Ma i coniugi Pepino non erano certo persone che si perdevano
d’animo; cominciarono subito ad informarsi, a chiedere in giro, anche grazie
all'aiuto di Don Piero Bairo, il parroco, che aveva preso molto a cuore la
tragedia di quei suoi parrocchiani.
E furono consulti dai professori a Milano, viaggi verso
cliniche in Germania, e pure i reparti di pediatria e di neurologia del Santa
Maria della Misericordia di Rovigo, forse anche felici di poter avere un caso
così eccezionale in città, si impegnarono a fondo per dare un supporto; consultando,
per quanto possibile, la comunità scientifica e medica internazionale.
Venne fuori che quella maledetta Oriotesserite, in tutto il
mondo, ce l’avevano soltanto altre due persone: un certo Abdullah El-Rahimi di
Essaouira, che era contento di avere quattro mogli perché era il massimo che la
legge ed il suo stipendio permettevano, ed il giovane Billy Ray Coleman di
Ozark in Arkansas, che diceva che lui era capace di beccare un opossum a 100
piedi al primo colpo, e che le altre tre pallottole non servivano.
Al San Raffaele di Milano, basandosi sulla rara letteratura disponibile,
per soli 300 Euro più 2 di marca da bollo a carico del paziente avevano
consigliato ai Pepino di educare il Cicio alla musica, sostenendo che era una
terapia che poteva dare dei gran bei risultati, con un po’ di tempo.
E così in casa Pepino era comparso un pianoforte verticale,
sui cui 84 tasti di troppo raramente il Cicio si avventurava, benché sapesse suonare
alla perfezione le prime due battute di Fra Martino Campanaro.
Il flauto dolce, alla quarta domenica di strazianti sibili, venne
inavvertitamente calpestato dal Gianfranco, quando si dice il caso, dopo che,
altrettanto inavvertitamente, una manata dello stesso – che intendeva ascoltare
in santa pace tutto il calcio minuto per minuto - lo aveva fatto rotolare già
dal tavolo in salotto.
Ma l’Orietta non era una che si dava per vinta e, già il
lunedì pomeriggio, preso il Cicio fuori dal dopo scuola, lo aveva portato dritto
dritto alla “La Musicale”; il negozio del Maestro Bombaci.
Qui, intenzionata ad acquistare una chitarra, aveva fatto
provare al figliolo tutta una serie di modelli, dalla flamenco alla western, financo
una 12 corde. Tutte prove cui il Cicio si era sottoposto senza fiatare ma,
soprattutto, senza capire.
Poi, mentre la madre e il titolare discutevano di altre
possibilità, dal Banjo al Charango fatto con l’Armadillo, Il Cicio si era
addentrato nei meandri del negozio.
Ne uscì, trionfante e sorridente, 10 minuti dopo, ostentando
un chitarrone più lungo di lui, di un accattivante giallo limone.
“Questa voglio!” esclamò a Maestro e madre. Indicando raggiante
la presenza di sole quattro corde sullo strumento.
“Questo” lo corresse il Bombaci, per poi affrettarsi a
spiegare alla madre “È un basso elettrico.”
SI trattava in effetti di un Manta, un bel fondo di
magazzino di basso elettrico, prodotto dalla Eko di Recanati negli anni ’70. Il
Bombaci sperava di farlo fuori da almeno una decina d’anni, ma ancora non aveva
trovato l’amatore, o il fesso.
E, come tutti i bassi elettrici che si rispettino, aveva
quattro corde; mica quelle robe da fighette moderne senza idee, che ne hanno cinque
o addirittura sei!
E su quelle quattro fantastiche corde il Cicio, volando fino
a casa, aveva cominciato subito a pestare giù duro come un matto.
Il Gianfranco, rincasando come ogni sera alle sei, sei e
mezza, in tempo per il tiggì e mettere le gambe sotto il tavolo in santa pace,
rimase stupito nel vedere gli inquilini del caseggiato al balcone, tutti protesi
ad ascoltare verso la finestra del suo appartamento.
Era il Cicio, che, in meno di due ore, già padroneggiava il
chitarrone con una maestria che l’Orietta c’aveva gli occhi umidi. E la tecnica
poi! Le quattro dita della sinistra volavano sulla tastiera, nonostante l’action
delle corde fosse più da grattugia che bella bassa sui tasti, mentre la destra,
chiusa come l’artiglio di uno sparviero, diteggiava con tutte le altrettanto
quattro! Una roba mai vista prima!
Solo il pollice non c’era verso di tirarlo in ballo, anche
perché il Cicio, per via della sua strana malattia e del vezzo di contare
partendo dal mignolo, manco lo considerava; “Uno, due, tre, quattro e l’altro”.
Ma, visti i risultati, poco male, anzi pochissimo.
Subito la notizia fece il giro della città: “C’è un
ragazzino che col basso è una roba che levati!” e mai frase così criptica ebbe
eco più vasta.
In breve, in tutti i locali e le balere, dal polesine al
delta, da Rosolina Mare fino a Lido degli Estensi, il pubblico e i musicisti
non facevano che parlare di questo miracolo.
E, come per ogni miracolo, iniziò la processione.
Il primo fu Marco Mugnaio, bassista di una certa notorietà,
che si presentò a casa Pepino un giovedì pomeriggio che era di pausa. E vide
quello che vide.
Da quella visita. tutti!
Nataniele Oriente, Stanlio Scarpe, Gianni Avvincentolo, Natale
Redini. La crema della crema dei bassisti della zona andava a vedere e sentire
quel ragazzino fenomeno e le sue quattro dita. Ma venivano anche da fuori eh?
Gente come Jacopo Pastori e Ruggero Acque, mai visti prima a Rovigo, e anche
stranieri come un certo Pine Palladine, dal Galles.
E ognuno, come in pellegrinaggio, recava doni al ragazzo
meraviglia: Natale gli abbassò l’action delle corde, Gianni gli regalò delle
meccaniche di precisione, che tenessero l’accordatura, Nataniele gli diede una
bellissima tracolla in pelle di anguilla, tipica della zona di Comacchio. Addirittura,
Il Pastori gli lasciò il suo amplificatore, una bestia da 100 Watt, marca Maresciallo.
Fu Lorenzo Grammi, il vecchio decano dei bassisti da balera,
a suggerire una variazione a quella tecnica così eccentrica e sopraffina, ma
tutto partì da un’innocente domanda.
“Ragazzo, hai mai provato ad usare il pollice?” chiese.
“Cos'è il pollice?” rispose Cicio.
“Quel dito lì” indico l’altro, “proprio in fondo alla mano.”
“Ah! L’altro!” fece Cicio, guardando quella strana e
innumerabile appendice alle sue quattro dita.
E ci provò.
Neanche nella biblica Gerico i muri vennero giù così rapidi!
A pestare con il pollice, l’altro appunto, sulle corde, il Cicio sembrò essere
diventato tutt'uno col basso, che già comunque era un pezzo che si davano del
tu.
E quel suo slappare (si diceva così, gli aveva spiegato il
Grammi) scatenava un apoteosi ritmico melodica che avrebbe fatto pure
resuscitare i morti, solo avessero trovato un buco dove infilarsi tra tutti
quei vivi che, dai quattro angoli della città, erano piombati sotto casa Pepino
a dimenarsi come ossessi, in un misto di gioia estatica e lascivia da girone
dei lussuriosi.
Tutta Rovigo muoveva il culo, per parlarci chiaro. E pure a ritmo.
Quel suono, anzi quel muro di suono, aveva destato l’interesse
anche del buon parroco, il Don Bairo di cui sopra, che però antepose al piacere
dell’orecchio l’orrore diabolico manifestatosi ai suoi occhi, e si precipitò in
casa Pepino con il crocifisso in pugno, a scacciar demoni.
“Basta! Basta!” urlò davanti agli esterrefatti Pepino madre
e padre, “Cos'è quest’abominio?!? Fermate quel giovine prima che si travi!” e,
con pazienza tipica dell’inquisizione spagnola, strappò il cavo dalla testata
del Maresciallo, che ormai quasi friggeva.
L’oooh di delusione proveniente dalla strada non bastò a
fermare il pio uomo che, anzi, avido di anime riconvertite si affrettò a riportare
la virtù del Cicio sulla retta via.
“Domani” disse,”in via del tutto eccezionale, verrà a
visitare la nostra umile parrocchia Sua Eminenza Monsignor PaoloGiovanni Delia
Scala, rettore delle pie opere musicali vaticane.”
“Non c’è tempo da perdere: gli ho già parlato del vostro
Francesco (che poi sarebbe il Cicio per noialtri) ed egli è dimolto interessato:
sta organizzando il concerto di piazza San Pietro e, se il cielo lo vuole, il
giovine potrebbe esibirsi alla presenza del Santo Padre! Ma solo se usa la mano nel Cristo! Perché è nel Cristo che c’è
la verità!”
I Pepino, al sentir quelle parole, si privarono delle loro,
nel senso che rimasero senza, mentre il Cicio, invero, era un filo più
dispiaciuto dall'essere rimasto senza amplificazione, ma pazienza.
L’indomani, vestito proprio come il giorno della cresima con
un blazer blu coi bottoni dorati e con il suo bel Manta sottobraccio, si
presentò di buon’ora in sacrestia, per eseguire tutta una serie di spartiti
classici e di musica sacra usando tutte e otto le sue numerabili dita.
Sua Eminenza, con un orecchio a quella divina esecuzione e un occhio alla rivendita dei biglietti, accolse di buon grado la proposta del
Don e, in men che non si dica, i tre Pepino vennero portati a Roma, dove, ospitati
nel pio ostello delle sorelle ausiliatrici pei poverelli del sacro cuore il bue
e l’asinello (tipo un Hilton a sei stelle ma esente dall’ICI) attesero il gran
momento, previsto per quella stessa domenica.
Solo il Cicio venne rimbalzato di qui e di là, tra esercizi
spirituali, sarto per la tunica in raso bianco, sessioni trucco e parrucco e le
interminabili prove che, bisogna dirlo, si sciroppò con una professionalità che
manco il Tony Dallara dei bei tempi.
Ma il diavolo che, si sa, coi distratti in chiesa fa la
spesa, si materializzò nella persona di Don Angelo Epaminonda, il mite
assistente al mixer che, per tema di dover ammettere i suoi gusti per la musica
profana al Cardinale organizzatore, entrato di colpo nella regia mobile in
Piazza San Pietro, si vide costretto a nascondere i suoi proibitissimi spartiti
di musica pop nel primo raccoglitore disponibile. Sì, proprio quello con
scritto sopra “Pepino F.”.
E quel disgraziato di angelo caduto non ti va a far soffiare
un bel ponentino proprio nell'acme dell’esibizione del nostro Cicio? Così che,
dopo un impeccabile crescendo mistico - da Fratello Sole Sorella Luna dell’Ortolani,
al Io Vedo la Tua Luce di Pier Angelo Sequeri, mettendoci dentro pure una
gettonatissima Ave Maria che piangevano anche le statue – il nostro si trovò davanti un
Sympathy for The Devil quanto mai inappropriato. E attaccò.
PaoloGiovanni Delia Scala, che era Monsignore sì, ma anche
uomo di mondo, riconobbe subito il tragico errore (quella musica non era il
previsto Aleluia Benedicat Vobis di Haendel) e, correndo verso il giovane bassista,
proruppe in un “No così! L’altro!!”
Mai parole furono più tragicamente interpretate.
Il Cicio, quasi meccanicamente, ripiegò le quattro falangette
sulle rispettive quattro falangi, ed estrasse l’altro dito come un malavitoso
di Testaccio avrebbe fatto col serramanico.
Ne scaturì un ritmo infernale che neanche quei benedetti
negri ad Hyde Park nel ’69.
La piazza, attonita, per un attimo si impietrì. Ma solo per
un attimo, perché già le Suore Francescane del Cuore di Gesù (delegazione
proveniente da Curitiba, nel Paranà) sentirono il maligno impossessarsi dei
loro fianchi e iniziarono a dimenarli così a tempo che manco una chorus line di
Las Vegas.
La scintilla era scoccata e, tra Domenicani che pogavano,
Benedettini che si lanciavano in avventatissimi shake e tutt’un roteare di
tonache e veli, il compitissimo concerto di musica sacra si era tramutato in un
rave da uscita 17 della tangenziale di Amsterdam!
Il Delia Scala capì che aveva solo una possibilità:
arraffato il primo turibolo disponibile (tra l’altro attribuito al Cellini, una
macigno da quattro chili) riprese la sua corsa verso il Cicio, con le
intenzioni che abbiamo già capito tutti.
Un potente, brusco eppure dolcissimo e suadente “Ma dove
vai?” lo fermò.
Voltatosi vide un vecchio venirgli incontro, con un sorriso che
emanava una calore mai sentito prima dall'anziano prelato.
“Porca troia” pensò, molto poco religiosamente, il
religioso.
Simone, detto Pietro, a.k.a. il Pilastro della Cristianità.
Più dietro un tizio con uno spadone tra le mani, che scuoteva la testa come a
dirgli “Vedi tu, ma io non lo farei”; fisso San Michele Arcangelo.
L’apostolo, sempre sorridendo, prese il turibolo, che al
tocco della sua mano si trasformò in una bianca colombella e spiccò il volo.
“Tranquillo” disse il primo Primate, “non era di Benvenuto,
me l’ha detto lui.”
Davanti al mutismo di Delia Scala continuò.
“Ma cos'è che volevi fare? Non vedi cos'ha combinato quel
ragazzino?”
Sue eminenza riuscì, pur mantenendo l’estatico silenzio, a
distogliere gli occhi dal Pilastro e vide.
Vide la gioia sui volti di tutta la Piazza, Sua Santità
compresa; vide uomini tutti d’un pezzo ritrovare i loro 16 anni, anziane devote
dimenarsi come avessero finalmente dato un senso ad una vita di sacrificio e
dedizione; vide il mondo ballare, felice.
“Ma…” balbettò al Santo “ma questo è un miracolo!”
Pietro grugnì, scuotendo la testa, ma il monsignore continuò
lo stesso, preso come era da un misticismo tutto suo.
“Quel… quel ragazzino” indicando Cicio che continuava a
sparare slappate come non ci fosse un domani, “Quel giovine! Egli è il bassista
di Dio!!” e, spinto dalla devozione o dai film di Hollywood, alzò le braccia al
cielo, perché gli sembrava giusto fare proprio così.
Il Michele, sbuffando, puntò lo spadone a terra,
tamburellando nervosamente sull'elsa e alzando il sopracciglio destro.
L’apostolo gli fece un brusco movimento del capo, una sorta
di “Dai, su!”, poi ritornò a Sua Eccellenza.
“Sarà ‘sta roba del libero arbitrio”, disse il Pilastro, “ma
voi umani non capite proprio una beata. E io di beate me ne intendo eh?” e
accennò una gomitata nella pancia del porporato, ridacchiando sulla battuta.
Poi, improvvisamente, si fece torvo.
Calò la sua manona sulla testa del monsignore e gliela girò,
costringendola a puntare verso il ragazzo, che martellava come un fabbro le quattro
corde del suo Manta.
“Quello…”, ringhiò nell'orecchio del prelato, indicando con il
suo indice vibrante il Cicio,
“Quello è un bassista della Madonna.”
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