domenica 29 gennaio 2012

Verdugo

Me llaman el verdugo
y soy un hombre solo
con estas manos limpias
que huelen a dolor
pasé toda mi vida
entre sombras y gritos
sin conocer piedad
sin conocer amor

Mi chiamano “El verdugo” e sono un uomo solo, con queste mani pulite che puzzano di dolore.
Ho passato la mia vita tra ombre e grida, senza conoscere pietà, senza conoscere amore.
L’esercito mi è stato padre e madre, padrone e puttana.
A quindici anni mi hanno messo una divisa; “almeno mangerai” disse mia madre, e ho mangiato.
Mi hanno mandato in cordillera, a stanare indios, e io avevo la faccia da indio.
Gli altri si lamentavano, mi insultavano e mi mandavano sempre avanti a tutti, a schivare le loro stesse pallottole.
Poi, una volta, il sergente mi ha detto:
“Indio, lo vedi quel prigioniero? Tagliagli i coglioni e portameli.”
L’ho fatto.
Il sergente ha preso i coglioni ancora caldi e mostrandoli ha detto a tutti:
“Questo qui ha la faccia da indio, ma ha le palle da argentino!”
Non l’ho capito subito, ma mi ha salvato la vita.
Allora mi hanno mandato a scuola, a scuola di canto, dicevano.
Mi hanno insegnato i numeri, le lettere, le tecniche ed i trucchi.
E ho imparato, a far cantare tutti.
Ero padrone dell’acqua e del fuoco, del ferro e dell’elettricità.
Mi hanno buttato in una cantina e mi hanno messo sotto.
Mi portavano i pezzi a tutte le ore del giorno e della notte. Ogni settimana, ogni mese.
Io eseguivo, applicavo quello che mi avevano insegnato.
Poi mi annoiavo e ho cominciato ad inventare.
Per scherzo mi hanno messo il nome, e invitavano anche i generali a vedere quanto ero bravo.
Mi guardavano e ridevano, bevendo. Bevendo tanto.
Così l'orrore nei loro occhi veniva nascosto dal coraggio dell’alcol, insieme al tremore.
Poi, una notte, mi hanno portato uno dei loro.
Gridava come gli altri.
Il nome mi è rimasto, ma nessuno ci scherzava più.
Un giorno è venuto il tenente.
“Abbiamo finito” mi ha detto. “Sei stato bravo. Dimentica, noi non ci dimenticheremo di te”.
Dimenticare?
Con la pensione mi pago una stanza ed il mate.
La signora non mi ha mai fatto una domanda, ma ha letto nei miei occhi il vuoto del cane senza padrone.
Ogni tanto mi passa i suoi avanzi, me li lascia fuori dalla porta. Senza una parola.
Faccio dei lavoretti, sono bravo con l’elettricità, e mi faccio pagare poco da chi non può permettersi un elettricista vero per una casa finta,
Ho imparato a leggere di nuovo, sui giornali vecchi che trovo in queste case.
E ho letto la mia storia. La storia del verdugo, perché il mio nome non lo sa nessuno.
E ci sono andato in quella piazza, fra le tante madri ed i pochi padri; gente a cui era stato strappato il diritto di continuare a vivere nei loro figli.
E fra tutti quei capelli grigi ho capito che io ero il più vecchio e loro tutti giovani. E loro erano tutti vivi e io sono sempre stato morto.
Da quando ho visto quelle facce e quegli sguardi mi lavo le mani continuamente.
Con il sapone, l’acqua e le lacrime.
Ma quell’odore non va mai via.
Ho visto il mio comandante in strada, con la famiglia e l’aria sicura di chi sa che può sapere.

L’ho seguito sotto casa e l’ho aspettato, perché non sapevo cosa fare.
E’ uscito, da solo, e io sempre dietro, come un cane abbandonato che ritrova il padrone; un misto di gioia e paura.
Mi ha visto, mi ha riconosciuto, mi ha preso da parte in un vicolo.
“Brutto scemo, cosa fai?” sibilava, tremando.”Sparisci, non farti più vedere”
Mi ha gettato dei soldi.
“Meglio per te sarebbe se fossi morto, indio del cazzo!”
L’ho ucciso con le mie mani, pulite.
Perché quello so fare.

Ogni giorno leggo sui giornali la mia storia, e imparo le storie ed i nomi dei pezzi che mi sono passati tra le mani.
Ogni giorno non so cosa fare, a volte vado in piazza a sentire quello che dicono di me e degli altri, ma sento solo che dobbiamo morire all'inferno.
Ma quello l'ho già fatto.

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