venerdì 22 ottobre 2010

La guerra di Cesira

Correndo dietro al gattino era arrivata al fiume.
Il fiume le piaceva, tanto. Anche quando diventava rabbioso e metteva paura alle altre bambine.
A Cesira il fiume non faceva mai paura, neanche quando la nonna le raccontava le storie brutte, delle notti passate con gli uomini a spalare, a portare sacchi, perché stava arrivando l’onda grossa.
Si era ricordata della nonna e - d’improvviso - si era resa conto che si sarebbe arrabbiata. Non voleva che Cesira andasse in giro da sola, soprattutto al fiume!
Ma Dario le aveva insegnato come scendere alla riva senza finire in acqua, quali erano i posti per prendere i ranocchi e dove si potevano vedere i mulinelli, per buttarci i rami leggeri e vederli girare e scomparire sul fondo.
Dario faceva la scuola con lei, ma era più grande, aveva già sette anni. Ma la scuola era così; andavano tutti insieme, i più piccoli e i più grandi nella stanza dove faceva freddo d’inverno e faceva caldo d’estate.
I maestri li dividevano solo dai grandi grandi, ma non sempre.
Con Don Ugo si stava tutti insieme, anche con Dario, ma a Cesira non piaceva: raccontavano sempre storie tristi e non si capiva, e poi Don Ugo gridava.
Gridava che c’erano i rossi, che erano diversi e cattivi, e che se arrivavano lì, al paese, sarebbe stato bruttissimo.
Una volta il fratello di Dario, Piero che era grande grande, aveva gridato anche lui, a Don Ugo! Che non era vero niente e che presto sarebbe finita per Don Ugo e per quelli come lui.
Don Ugo era quasi caduto e poi era scappato fuori dalla classe. Anche Piero era scappato, dalla finestra.
Il giorno dopo era venuto in classe il podestà con altri due, brutti, vestiti tutti di nero e con le teste di morto sul colletto. Ma Piero non c’era e neanche Dario; Cesira aveva pianto un pochino.
Poi però Dario era tornato, e le aveva detto che Piero era andato in montagna, a combattere.
Così Cesira tutte le sere diceva un pezzo di preghiera anche per il fratello di Dario, ché non morisse.
Con la primavera era tornata con Dario al fiume.
La nonna le aveva raccontato cose terribili, che i tedeschi mettevano le bombe sottoterra, che bastava metterci su un piede e si moriva.
Ma Dario le aveva insegnato come riconoscere la terra buona da quella cattiva, e che bisognava seguire le impronte degli animali e non succedeva niente.
Il gattino non si vedeva più. Cesira provò a chiamarlo un paio di volte, come le aveva insegnato la mamma, ma il rumore del fiume era forte e Cesira non sentiva neanche le sue parole.
Poi aveva visto il soldato.

Fermo, dentro una buca, le sorrideva.
Anche Cesira aveva sorriso, un po’ vergognosa e un po’ spaventata, ma non era successo niente.
Il soldato continuava a sorridere, ma non guardava lei.
Si era voltata, pensando di vedere qualcun’altro, ma non c’era nessuno.
E il soldato continuava a sorridere, guardando lontano.
Cesira si era avvicinata con lentezza, perché non capiva cosa stesse facendo il soldato e la nonna le aveva detto di stare sempre attenta.
Ma quello sorrideva, senza muoversi e senza allegria.
Poi, quasi sull’orlo della buca, era riapparso il gattino.
cercava di uscire dalla buca del soldato, ma non ce la faceva.
Cesira l’aveva preso tra e mani e solo allora aveva visto.
Nella buca non c’era niente, neanche le gambe del soldato.
Solo terra scura intrisa di sangue e tante, tantissime mosche.
Con il gattino tra le mani, che si lamentava per quanto fosse stretto, era scappata, fin dietro l’albero.
Da li si era voltata a guardare, che il soldato non le fosse corso dietro.
Ma era sempre lì, il suo sorriso ora una smorfia di dolore.
Con la mano che le tremava colse due fiorellini, appena sbucati nella primavera tardiva. E il gattino scappò ancora, lontano.
Piano piano andò a portarli al soldato, gettandoli - per la troppa paura di avvicinarsi -davanti a quel volto immobile.
E poi via, di corsa dalla nonna.
A metà strada arrivò il suono delle campane: prima una, poi tutte.
Da lontano si sentivano anche le campane del paese vicino e poi ancora altre, sconosciute.

In cortile non c’era nessuno, solo il frastuono delle campane.
Poi la nonna gridò.
Cesira se la vide correre incontro ed ebbe paura, ma la nonna la prese in braccio e cominciò a baciarla felice.
Arrivarono anche Matteo, con il nonno, ancora sporchi di terra, e si abbracciavano tutti.
Sua sorella rideva impazzita e corse incontro alla mamma, che era arrivata in bicicletta.
La mamma la strinse forte forte, che quasi le faceva male.
Tutti gridavano, contenti.
Matteo urlò “Arrivano!” e tutti corsero fuori, in paese.
Cesira, sulle spalle del nonno, vide da lontano la gente in mezzo alla piazza; e poi le macchine che entravano in paese suonando forte le trombe.
Un urlo di gioia esplose proprio mentre arrivavano degli uomini con i fucili, tutti sporchi e con la bandiera davanti.
Poi altre urla, brutte, e gli insulti e Cesira riconobbe uno di quei brutti della scuola, con la camicia nera tutta strappata e la testa bassa sporca di sangue, spinto da tutti.
Poi Dario che la chiamava dalle spalle di Piero, anche lui con un fucile, che veniva baciato dalle ragazze della scuola.
Tutti battevano le mani e ridevano, gridavano.
Arrivarono delle altre automobili, grosse e sporche e tutti di nuovo battevano le mani; gridavano “i Mericani!” e gli offrivano di tutto, dal vino ai polli spennati.
E allora capì che la guerra era finita.
Ancora sulle spalle del nonno pensò al soldato, morto, vicino al fiume.
Poi le venne il mente il suo gattino, il suo regalo di compleanno appena scappato.
E pianse un pochino.

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