Com’è bella Ostia all’alba.
La luce dirada le ombre della notte dal mare e sbianca le
casette del litorale, brutte, ma rese belle dalla loro semplice povertà.
Sono case modeste, per gente modesta, che è felice di avere
un tetto e poco importa se la porta di casa è un’orribile e sgraziato infisso
di alluminio anodizzato, un moderno pugno nell’occhio di fronte alla vetustà
dei muri.
Però sono belle, come un sorriso senza qualche dente, che
appare sgraziato, magari anche ridicolo, ma che è bello perché è un sorriso.
Queste casette, incastonate tra spiazzi sabbiosi a ridosso
della spiaggia, si stanno ridestando alla luce di questo sole di novembre, che
illumina ma non scalda.
E sento i rumori di chi si ridesta al loro interno: qualche
pentola che batte sui fornelli, qualche parola, qualche scroscio d’acqua.
Presto usciranno verso la loro giornata, Verso un viaggio; in bicicletta, in
motoretta o in corriera. Verso altrove, comunque, perché qui non c’è niente.
Ci sono solo io, disteso in questo spiazzo.
E, forse, qualcuno di questi viaggiatori dell’alba,
vedendomi, griderà. Spezzando il silenzio che ha accompagnato la notte, che ha
accompagnato il mio martirio.
Perché io sono morto.
Non ho pensato. Per una volta non ho pensato.
Ma ero spinto, travolto, dalla voglia di recuperare quelle
immagini.
E quei ragazzi, che conoscevo e frequentavo, tante altre
volte si erano dimostrati utili e comprensivi.
Dall’evitare il furto dell’auto al capire che ero fatto
così, come altri tra loro, e che non c’era scandalo o ribrezzo perché, quelli
sì, sono vizi costosi, che puoi mantenere solo se puoi condurre una vita senza
debolezze necessarie, senza necessità di fronte alle quali la morale comune
sparisce, perché non capirebbe.
Certo, ci si scherzava, ma come si scherzava sul labbro
leporino di Riccio o sull’accenno di gobba di Richetto.
Questi non scherzano, non sono capaci.
TI prendono in giro, e ridono. Ma sono quelle risate
ignoranti, fatte risuonare perché non hanno ben capito perché ridere, ma hanno
capito che devono ridere perché anche gli altri lo fanno.
E lo fanno nei lugubri locali che frequentano, protetti
dall’ombra di qualche associazione o dal simbolo di uno dei loro partiti, ma lo
fanno anche nelle raffinate e sussiegose stanze delle loro case.
Cambiano i personaggi, ma la ristrettezza mentale è la
stessa. In basso offensiva e ignorante, in alto sussurrata e maliziosa. Ma
accomunate dalla stessa paura
Per questo hanno rubato le mie immagini.
Perché gli dava fastidio, il fastidio di dover ammettere che
era vero, che di fronte alla morte tanto osannata dalla loro retorica, la
certezza di vederla arrivare faceva ancora più paura, perché sarebbe stata una
morte orribile e tragica.
E quindi si ubriacavano per non vederla.
Ebbri della loro stessa violenza, perché di altro non
sapevano vivere.
E le mie immagini lo dicono, lo fanno vedere.
Ma è uno scandalo.
Non per loro, che capiscono solo le offese e le botte. Ma
per gli altri.
Quelli che non si sporcano le mani, quelli che sono
moderati. Quelli che sono “per bene”.
E tutto questo è scandaloso, schifoso; come si fa a parlare
di certe cose!?!
Ma ne discutono, anzi ne fanno discutere i loro portavoce, i giornalisti dei
loro giornali, gli scrittori dei loro libri, i politici dei loro partiti.
L’importante è quel “loro”, che li distanzia, tanto, dalle
vite che non vorrebbero mai vivere, ma delle quali giudicare.
Per denigrarle, rabbrividirne a volte, e comunque
stigmatizzarle, come negative, abiette, vittime e generatrici di violenze.
Ma sono i silenzi dei loro salotti buoni i complici delle
violenze, i mandanti delle nefandezze che loro vedono, certo giudicano, ma non
rifiutano, non, mai, condannano.
Quelli che, domani, leggendo della mia morte, esprimeranno
un rammarico, forse, ma non confesseranno il sollievo.
Mi hanno massacrato, per eliminare con la rabbia violenta e
cieca la loro paura, come sempre ha fatto l’uomo.
Mi hanno condannato perché ho commesso il crimine più
grande, ai loro occhi e per le loro menti semplici.
Non la mia sessualità, che, credo, ha creato più tormenti a
me che a loro, non la mia sfrontatezza, che il mio coraggio aveva ingigantito,
no.
Ogni mia parola, ogni mio scritto, ogni immagine che ho
composto per loro era la prova schiacciante della mia colpa.
Ma io volevo solo raccontare.
Le storie, di tutti di noi.
Quelle famose, quelle semplici, che sono le stesse, solo
capitate in altri momenti, ad altre persone.
Le tragedie greche risolte in risse di periferia, i drammi
d’amore dei principi nordici riportate in un bar del centro, tra commessi di
belle speranze e signore di perdute bellezze.
Io volevo solo
raccontare.
Per dire a tutti che non era come la pensavano loro, che c’è
poesia anche in un dialetto sgangherato e senza futuro nella modernità, che una
prostituta può cercare una vita migliore, che un questurino può essere una
vittima.
E ho fatto pensare.
Ho fatto pensare tutti, chi già conosceva
i mali che ho descritto, chi li comprendeva per la prima volta, chi li usava,
da tempo, per il proprio tornaconto.
Ma, soprattutto, ho fatto pensare anche loro, che odiano
farlo. Perché il pensare li tormenta, rende difficili le loro basiche,
semplici, logiche.
Perché contrasta la loro vera forza, che è ignoranza, delle cose ma, su tutto,
ignoranza degli altri.
L’ignoranza del prossimo li rafforza nella loro cieca
dottrina che tutto ciò che è contrario alla loro natura è sbagliato.
E, se non gli riesce di perseverare nell’ignorarlo, va
eliminato.
Hanno dato nomi, colori e facce terribili a questa
convinzione: fascismo, nazismo, nazionalismo, qualunquismo, totalitarismo.
Ma sono tutti frutti dello stesso albero, l’albero più
antico che l’uomo coltiva da sempre. Fin da quando si è affacciato su un mondo
di cui non conosceva nulla e che, perciò, era fatto di pericoli.
Questi cavernicoli moderni, che hanno sostituito alle clave
la polvere da sparo, agli orpelli fatti con denti delle bestie ammazzate i
consumi di una società che si identifica sempre più in ciò che hai piuttosto in
chi sei, credono di essere riusciti ad eliminare un’altra delle loro paure.
Per non pensarci più.
Ma, dovessero anche bruciare fino all’ultimo dei miei
scritti o dei miei fotogrammi, non riusciranno, come è stato per altri, tanti
altri che hanno trucidato prima di me, ad eliminare la mia idea, il mio
pensiero.
E il mio nome.
Qui, su questo spiazzo sabbioso vicino al mare di Ostia,
giace – immobile - il mio corpo morto.
Ma non il mio nome.
Pier Paolo Pasolini.